«Avevamo due opzioni: una guerra aperta con l’entità israeliana a spese del nostro popolo druso, della sua sicurezza e della stabilità della Siria e dell’intera regione, oppure dare agli anziani drusi e agli sceicchi l’opportunità di tornare in sé e dare priorità all’interesse nazionale». A chiarire il perché del ritorno alla calma in Siria è lo stesso presidente ad interim Ahmed al Sharaa, già noto con il nome di battaglia Al Jolani, quando, al fianco di Al Qaeda, brigava per dare la spallata definitiva al governo degli Assad. Ora che è lui a governare, ha compreso che la violenza sui civili non conduce che alla rovina. Dopo le oltre 250 vittime negli scontri scoppiati questa settimana tra drusi locali e beduini sunniti appoggiati dalle Forze di Damasco, e soprattutto dopo l’intervento militare di Israele – che ha attaccato lo stesso palazzo presidenziale – al Sharaa ha avuto un assaggio della logica che sottende alle azioni del governo Netanyahu: ogni scontro al confine sarà considerato un atto ostile. Questa è la linea rossa israeliana, e varcarla significa accettare una ritorsione immediata.
Ecco allora che il passo indietro di Al Jolani è un bagno di realtà per la nuova Siria. Sebbene gli attacchi di Israele possano apparire come un’aggressione indebita, o peggio rispecchiare la necessità di «distrarre l’opinione pubblica dalle operazioni a Gaza» (come per l’Iran, questa è una lettura davvero banale e semplicistica), in realtà rivelano qualcosa in più. Chiarito che i drusi sono un gruppo etno-religioso arabo la cui fede incorpora credenze dell’Islam, dell’ebraismo e del cristianesimo, e detto che sono distribuiti tra Siria, Libano e lo stesso Israele, la loro difesa da parte di Gerusalemme è presto spiegata: in Israele vivono circa 150mila drusi che, a differenza della maggior parte degli arabi con passaporto israeliano, sono soggetti alla leva militare obbligatoria. Anzi, rappresentano una componente essenziale per le Forze armate israeliane: molti di loro sono ufficiali di alto rango dell’Idf, membri dei reparti speciali o comunque funzionari di prim’ordine della pubblica sicurezza.
Ecco dunque che per Gerusalemme (un po’ come i turcomanni siriani per la Turchia) difendere «i fratelli drusi» è funzionale al mantenimento di un’unità d’intenti interna, ed è strategico per mantenere una zona cuscinetto al confine con un Paese altamente instabile: i drusi siriani sono, dunque, un piede israeliano all’interno della Siria. Bisogna poi considerare che il nuovo governo siriano è ancora agli albori: l’esercito e le Forze di sicurezza sono debolissimi e faticano ad affermare il proprio controllo su un territorio interetnico e interconfessionale, sommatoria di quella che era e rimane una no man’s land, con sacche tanto di assadisti quanto di jihadisti ancora sparsi a macchia d’olio su tutto il Paese, Damasco compresa. Del resto, gestire le macerie di una guerra civile decennale che ha fatto oltre 400mila morti non è banale.
Ecco anche perché, all’indomani della caduta dell’ex dittatore Assad lo scorso dicembre, Israele ha lanciato un’ondata di attacchi aerei devastante, distruggendo oltre 400 siti militari in sole 48 ore e annichilendo sia la contraerea sia la flotta navale e aeronautica. L’intento era palese: impedire qualsiasi rapida ricostruzione di un esercito che possa un giorno minacciare la sicurezza al confine. Dal punto di vista siriano, invece, come spiega l’analista Lorenzo Trombetta, autore del saggio geopolitico Damasco (in uscita a novembre per Paesi Edizioni), il motivo dell’attacco ai drusi era «prendere il pieno controllo della regione di Sweida, da secoli considerata dalle altre forze tribali locali un ostacolo allo sviluppo delle loro attività economiche. In più, i drusi durante la guerra civile non si sono mai schierati apertamente contro Assad, preferendo attendere – noi diremmo “democristianamente” – gli esiti dello scontro. Questo, insieme a un retaggio ideologico che dipinge i drusi come “miscredenti”, è sufficiente agli occhi dei radicali sunniti per muovergli guerra». Gli attacchi israeliani, in definitiva, rappresentano un deterrente militare tanto quanto un avvertimento politico volto a plasmare il nuovo ordine post-Assad prima che si consolidi.
