Nei giorni scorsi abbiamo assistito a un dibattito sul nuovo codice degli appalti che definire surreale non rende abbastanza. Prima di entrare in qualche considerazione di merito sia consentita una riflessione più ampia. In un paese come l’Italia, in cui l’intervento dello Stato nell’economia è, a dir poco, dilagante, il settore degli appalti pubblici ha un peso rilevantissimo nell’economia nazionale. Esso incide fortemente sul PIL e, dunque, da un lato, sulla spesa pubblica e, dall’altro, sulla condizione di famiglie e imprese. Direttamente, in termini di trasferimenti economici e di prestazioni richieste dalle (e alle) amministrazioni e, indirettamente, in termini di qualità di servizi e infrastrutture. E’ un tema molto, troppo importante, perché diventi l’occasione di polemiche sbrigative, di scontri strumentali per guadagnare qualche titolo sui giornali. Purtroppo è quello cui abbiamo assistito nella maggior parte dei casi.
L’aspetto che più ci ha colpito è stata la lettura esasperatamente e ingiustificatamente allarmistica delle conseguenze che discenderebbero dall’entrata in vigore del nuovo codice. E’ stato agitato un rischio di esplosione della corruzione e della minaccia alla qualità e sicurezza degli appalti, di lavori, servizi e forniture. La cosa più sorprendente è che spesso gli argomenti su cui si fonda questo allarmismo riposano su basi fragili se non inconsistenti. Non si tratta ovviamente di difendere acriticamente un prodotto legislativo, frutto, peraltro, del lavoro di organi tecnici, particolarmente qualificati, come la Commissione che ha redatto il testo poi consegnato, come dev’essere, alla politica per le sue scelte di opportunità. Peraltro nulla della polemica di questi giorni ha riguardato presunti stravolgimenti tra il disegno originario dei tecnici e il risultato finale approvato dal Governo, dietro parere delle Camere.
Ma se non si tratta di difendere acriticamente, non si tratta nemmeno di demonizzare altrettanto acriticamente. Chi si occupa professionalmente di diritto, sia in sede scientifica, che nelle aule di tribunali, sa bene quanti problemi abbia la nostra legislazione e quanti interventi si dovrebbero fare per assicurare una mai come oggi minacciata certezza del diritto. Ma appunto queste operazioni vanno fatte a partire dalla consapevolezza dei problemi e delle difficoltà, che nascono spesso dalla necessità di contemperare esigenze diverse e spesso antagonistiche. Non è necessario scomodare Kafka per ricordare che la necessità di legalità dell’azione amministrativa può produrre esiti appunto “kafkiani” quando non viene contemperata con l’esigenza di assicurare il buon andamento, l’efficienza e l’efficacia dell’azione pubblica. Legiferare, oggi, nello Stato contemporaneo, definito non a caso da tempo, “Stato amministrativo”, significa trovare continuamente un senso della misura, delle proporzioni, anzi della proporzionalità tra finalità perseguite e mezzi necessari.
Anche perché l’eccesso di regolazione o la cattiva regolazione, spesso producono effetti paradossali, finendo per incentivare proprio i comportamenti patologici che si vorrebbero evitare. Per questo è necessaria molta serietà e molta onestà intellettuale nell’affrontare questioni così serie. Basta un esempio per capire quanti danni possa produrre un dibattito, ansiogeno, masochistico e opportunistico. Con riferimento proprio alla modifica degli appalti di lavori pubblici. Si sono letti titoli terrorizzanti, come ad esempio quello per cui con la disciplina emergenziale, prima, e con il nuovo codice, poi, ben il 98 per cento dei lavori potrà essere assegnato senza bando. Cioè senza una gara aperta a chiunque voglia parteciparvi. Detto così sembra che ci troviamo di fronte al far west, all’arbitrio puro, all’anarchia in cui può annidarsi ogni sorta di malcostume e di corruzione. Peccato che questa affermazione sia del tutto fuorviante.
Innanzitutto perché quel 98 per cento è calcolato sul numero delle procedure e non sul loro valore economico. E dunque non dà nessuna informazione, ai fini che interessano, per combattere le patologie. Se, in ipotesi, 98 procedure avessero il valore di 10.000 euro e due quello di 15 milioni di euro, il dato sarebbe molto meno allarmante, che se il rapporto fosse invertito. Quello che conta dunque sono, innanzitutto, i dati economici, non il numeri delle procedure degli appalti. Ma è la somma che fa il totale, direbbe Totò. E allora vediamo la somma e vediamo il totale. Basta leggere l’ultima relazione dell’ANAC, l’autorità anticorruzione che vigila sugli appalti pubblici, per avvedersi che le cose stanno in modo diverso. Escludiamo intanto gli appalti sotto i 40mila euro che, già con il precedente codice, potevano essere attribuiti con affidamento diretto (cioè alla singola impresa senza consultazione di altri operatori). Se consideriamo tutti gli altri, nel 2021 le procedure con gara europea, i cosiddetti “sopra-soglia” hanno assegnato lavori per circa 24 miliardi di euro, il 55 per cento del totale della spesa pubblica in questo settore (43 miliardi).
Gli altri appalti, c.d. sottosoglia, hanno invece avuto un valore che si aggira intorno ai 19 miliardi (che non sono il 98 per cento). Peraltro, all’interno di questa categoria, vi sono almeno tre differenti modalità di assegnazione, tutte presidiate da garanzie crescenti di confronto concorrenziale man mano che ne cresce il valore economico. Confronto che consiste nell’obbligo di svolgere indagini di mercato e invitare un numero minimo, determinato dalla legge, di operatori economici (dovendo sempre motivare la scelta compiuta a favore del prescelto). Ebbene, rispetto a questa situazione il dibattito pubblico si è concentrato essenzialmente sulla circostanza che, con il nuovo codice, la soglia per il c.d. affidamento diretto, è salita da 40.000 a 150 mila euro. Facendo un po’ di calcoli, questo significa che il 98 per cento paventato, si è trasformato in un 5 per cento del totale: circa 2 miliardi di euro rispetto ai 43 complessivi spesi annualmente nel settore.
Due miliardi non sono pochi e, si potrebbe dire, anche il 5 per cento può generare allarme. Giusto, ma c’è differenza tra allarme e terrore, c’è differenza tra rischi e arbitrio, far west e corruzione dilagante. Ma non è tutto. Perché anche considerando gli affidamenti più a rischio (quelle al di sotto dei 150mila euro, appunto) i meccanismi esistenti per accertare comportamenti patologici sono tali e tanti (dall’obbligo di motivazione, al principio di rotazione, dalla richiesta di requisiti soggettivi di qualificazione e integrità professionale) che, se si vuole e se lo si sa fare (ma qui non c’entra la legge), le garanzie possono essere assicurate. Soprattutto se si realizzerà, come vuole il nuovo codice dei contratti pubblici, la digitalizzazione dell’intero ciclo degli appalti. Il problema vero è che, non solo legiferare, ma anche amministrare e vigilare è difficile. Richiede competenze e metodi innovativi. Mentre è molto più facile stabilire divieti, porre veti e agitare lo spettro di un paese irredimibile. Costa poco e soprattutto consente di eludere la fatica di affrontare realmente i problemi. Che sono purtroppo tanti e complessi. A cominciare da un paese asfissiato dall’impotenza di fare e di crescere.
*Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Roma Tor Vergata
**Professore ordinario di diritto amministrativo, Università di Roma Tor Vergata
