La novità più dirompente di questa settima rielaborazione cinematografica di Piccole Donne diretta da Greta Gerwig – regista di Lady Bird – è l’attenzione alle tematiche, più che alla narrazione romanzesca. Il libro di Louisa May Alcott, inizialmente uscito in due volumi tra il 1868 e il 1869, è una storia familiare di amore, di scontri, di contrasti, di legami indissolubili.
Tra le sorelle March spicca Josephine, detta Jo, alla faticosa ricerca di un’indipendenza economica che passi per la letteratura. L’atto creativo è mostrato in ogni suo aspetto: dalla gioia, alla necessità – Jo vende racconti di argomento scandalistico «perché la moralità non vende, ma le donne, alla fine, si devono sposare»: quadro realistico quanto straziante del nostro mercato editoriale – alla fatica, alla sensazione di tradimento che si prova quando ci si rende conto che la scrittura non salva la vita di chi si ama.
Se tutte le precedenti versioni si vestivano da melodramma romantico in cui regnavano i buoni sentimenti, nel film di Greta Gerwig incontriamo le Piccole Donne adulte, già ferite dalla morte, dalla guerra, dalla povertà, in continua negoziazione con la vita. Che nella famiglia March il collante sia l’amore è, da sempre, una delle caratteristiche fondamentali della trama: tuttavia, nell’attuale trasposizione, non si tratta di un amore melenso, né scontato, bensì tormentosamente sano e facondo.
E non può che essere così, perché in mancanza di amore e di comunicazione, avremmo avuto le “Piccole donne disfunzionali” della famiglia Lisbon ne Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola, in cui l’amore che legava le cinque sorelle, figlie segregate e sopraffatte dal potere indiscusso della madre e dal silenzio complice del padre, non coinvolgeva anche i genitori: un nucleo in cui gli interruttori della comprensione erano sempre spenti.
Anche in quel caso una delle sorelle, Lux, spiccava per la forte personalità e per una ribellione al potere del silenzio che assumeva, però, connotati erotici, a differenza della rivoluzione sognata da Jo, del tutto sprovvista di armi sensuali. Che Jo March sia sempre stata considerata una pioniera del femminismo è elemento autoevidente – per di più, in questa versione cinematografica, l’impossibilità di una donna di guadagnarsi da vivere senza un marito è fin troppo sottolineata dai dialoghi (“d’accordo, Gerwig, abbiamo capito”, viene spesso da dire), ciò che però risulta sovversivo è il modo in cui ciascuna delle sorelle sceglie la propria strada.
Amy, il personaggio più “antipatico” ed egoriferito, è una ragazza che ha sempre sofferto di complessi di inferiorità nei confronti della sorella Jo e, pur avendo spesso dichiarato l’intenzione di sposarsi per interesse, alla fine sceglie l’amore; Meg, pur soffrendo per la povertà che la vita matrimoniale le impone, sceglie la sua libertà all’interno del matrimonio; Jo, dopo la morte di Beth, smette di scrivere perché «la scrittura non l’ha salvata».
Precipita nel vuoto, ed è proprio in quel momento che ricomincia a scrivere. Stavolta non per guadagnare, né perché il mercato glielo impone, ma perché avverte l’urgenza della fedeltà a se stessa e alle sue scelte, un atto di fiducia che riguarda soprattutto la libertà, poiché verba sunt acta. È proprio nel colpo di genio finale che Greta Gerwig, con la narrazione che procede in parallelo tra presente e passato, spariglia le carte. Mancano solo pochi fotogrammi all’happy end conclusivo, ma la regista serve il dessert seminando dubbi. E la sua interpretazione del plot si rivela credibile perché porta alla luce – più che i personaggi e le relazioni affettive -, i nodi cruciali della vicenda, ovvero il tema delle scelte individuali, la colonna portante di questa settima trasposizione cinematografica.
Gerwig lascia indietro il sentimentalismo e illumina un femminile combattivo che non intende privarsi degli uomini. Le scene più potenti e innovative sono quelle che la regista dedica alla scrittura e alla stampa del libro: Jo dispone a terra le pagine che ha scritto, le organizza, le consegna all’editore, contratta il prezzo e la cessione dei diritti («Voglio che il libro resti mio»); dopodiché, arriva l’oggetto-libro, nella sua nascita risiede un approccio creaturale: i fogli tagliati ancora a mano, la pressa, la copertina di pelle. L’editore aveva insistito affinché la protagonista si sposasse.
Jo aveva rifiutato («La mia protagonista non ha bisogno di un uomo»). Sappiamo tutti come va a finire, Gerwig non ha piegato il testo alle proprie esigenze narrative.
È l’adesione completa al finale del romanzo della Alcott che, anche in chi Piccole Donne l’ha mandato a memoria, fa nascere l’interrogativo più affascinante, quello che ci restituisce la modernità di una storia più di libertà che d’amore: l’avevamo capita realmente? Come i bei libri, anche i film sono belli quando non danno risposte, ma pongono domande. E Jo March continuerà a interrogarci finché, per fortuna, continueremo a nutrire il dubbio critico.
