Hai voglia di andare a Monza sulla pista della Formula Uno, snobbando gli industriali a Cernobbio, per far passare il messaggio di un paese che deve andare “più veloce”. Il problema è che per andare forte e veloci servono gambe, piedi, fondamentali e allenamento. Se usciamo di metafora, ad un paese che vuole andare veloce servono regole d’ingaggio chiare e solide. Nel caso dell’Italia quelle benedette riforme che ci dovrebbero riportare negli standard europei. Riforme che sono parte essenziale del Piano nazionale di ripresa e resilienza, garanzia per avere accesso alla dote dei 200 miliardi e che invece la revisione del Piano proposta dal governo a Bruxelles intende rinviare o ridimensionare. Sono ben 17 le riforme in bilico – sul totale delle 144 modifiche richieste – su cui si è soffermata l’attenzione della task force guidata da Celine Gauer. Ieri il ministro per il Sud, la Coesione e gli Affari europei Raffaele Fitto era a Bruxelles per un faccia a faccia con Gauer. “È andata molto bene, sono ottimista” ha commentato soddisfatto. Giudizi “positivi” anche da parte della task force. È stato il primo confronto dopo la pausa estiva. Dopo che tra la fine di luglio e i primi di agosto era stato assicurato che i 19 miliardi della terza rata, bocciata in qualche sua parte, “erano in arrivo”. Lo scriviamo da marzo ma i soldi continuano a non arrivare.
Il work in progress continua e Fitto è “ottimista e fiducioso”. Non lo fosse, sarebbe un problema serio. Il punto però è che Bruxelles comprende poco e male il definanziamento di 16 miliardi (che andranno non si sa ancora dove e come) che riguarda per l’appunto i comuni, le periferie, i piani urbani integrati, le politiche di coesione e i tre miliardi sottratti al rischio idrogeologico e alla transizione green. E, ancora di più, capisce poco e male lo stallo sulle riforme. In un lungo articolo pubblicato sul Financial Times il 30 agosto si legge infatti che Bruxelles “respingerà al mittente qualsiasi dilazione delle riforme volte da tempo a risolvere problemi identificati come il vero ostacolo alla crescita dell’Italia”. Si tratta di 17 riforme, dalla giustizia civile alla disciplina sugli appalti pubblici, da una nuova legge sul pubblico impiego alle semplificazioni, dalla riforma del fisco alla contabilità pubblica. Dai tempi di pagamento della pubblica amministrazione (troppo lenti) agli alloggi universitari (troppo pochi).
Del resto Draghi lo ripeteva sempre: “Il Pnrr non è solo investimenti da realizzare entro una determinata data. La vera sfida del Piano di ripresa è fare quelle riforme che consentiranno oggi e soprattutto domani all’Italia di continuare a crescere”.
Il boccone più difficile da digerire per Bruxelles è la giustizia. Le modifiche previste da Fitto prevedono due marce indietro clamorose che riguardano entrambe il processo civile: la riduzione degli arretrati del 65% entro il 2024; del 90% entro il 2026. Le motivazioni addotte dal governo Meloni sono che si tratta di obiettivi non raggiungibili visto che il trend di riduzione degli arretrati è stato di circa il 6% nel 2021 e nel 2022. Il governo chiede tempi supplementari anche per la riforma sui pagamenti della Pubblica amministrazione, sempre molto, troppo in ritardo rispetto agli standard europei cosa che fa spesso desistere i privati da investire e fare impresa con il pubblico. In questo caso la modifica riguarda i tempi: gli obiettivi del 2023 sono rinviati a marzo 2025. Tra le riforme congelate anche quella che riguarda il fisco: il Pnrr indicava degli obiettivi di “riduzione della propensione all’evasione fiscale”, il governo chiede di correggerli al ribasso per “motivi oggettivi”. Quali? “Condizioni macroeconomiche che impattano sul comportamento dei contribuenti”.
Non si capisce, inoltre, come Bruxelles possa dare il via libera alle richieste di modifica sul grande capitolo della concorrenza: non riusciamo a fare nulla di quanto previsto sulle concessioni, dai balneari ai trasporti, taxi in testa, per finire al catasto e alle autostrade. Sul fronte appalti si chiede il rinvio della digitalizzazione delle pratiche e l’abbandono dei cento giorni in media oggi necessari tra l’aggiudicazione dell’appalto e l’avvio dei lavori. Diciassette riforme rinviate. Su cui Bruxelles potrebbe far scattare il semaforo rosso. Un problema in più che si aggiunge ai “mal di pancia” sul superbonus edilizio (100 miliardi, ne restano ancora 80 da pagare), alla carenza di soldi, al pil che rallenta, alle nuove regole sul Patto di stabilità, al nostro debito troppo alto e che è, dice Giorgetti, “lo specchio della nostra coscienza”. Non sarà facile scrivere la legge di bilancio: l’effetto Draghi è finito, l’effetto Meloni non è ancora pervenuto.
