“Ciao né” e “mica dormo”, le famiglie emigrate da sud a nord, poi ritornate giù, anche se dopo solo un mese, si portavano in eredità, nei figli, frasi di questo tipo, che consideravano distintive in meglio: avevano fatto progresso, e qualche dialettismo, imparato a scuola o in fabbrica, lo confondevano per italiano. Lo usavano in ogni occasione per fare figura, mostrarsi più avanti degli altri. Anche solo imitare un accento settentrionale era sinonimo di progresso. E in verità, gli strafalcioni nella lingua, sono essi una caratteristica distintiva degli italiani del passato, di quelli di adesso, lo saranno nel futuro. Che l’italiano lo conoscono meglio, alla fine, quelli che arrivano da fuori, dovendolo studiare, più di noi che adagiandoci su un’italianità nativa inframmezziamo frasi spesso solo umoristiche, parole improbabili. I dialettismi sono l’inciampo di tutti, nella lingua. E gli scivoloni, nei libri di testo sono una costante, una trappola in cui si cade da sempre.
“Mica” è, solo, il caso delle Avventure di Leo, il libro dei buoni propositi per i bambini delle scuole primarie, con l’illustrazione del bambino di colore che promette: quest’anno io vuole imparare italiano bene. Questo libro ha scatenato un mare di polemiche. E’ razzista o no? Io, da bambino sarei cascato su quest’anno, avrei detto st’anno, anzi, ogni tanto mi scappa pure mo’. Che magari non è razzismo, solo superficialità, razzismo sarebbe stato se alla frase ci avessero aggiunto mizz Rozzella, che è una battuta facile, la prima a circolare sui social. Sì, superficialità, che anch’essa però è un segno di poco rispetto della diversità, delle differenze. C’è un libro di testo, sempre per le elementari, in cui gli alunni debbono colorare i bambini di una illustrazione: i maschi costruiscono, fanno capriole pazzesche. Le femminucce preparano la tavola. È lo stereotipo il problema vero, più di un razzismo che è poi conseguenza
di una scuola fatta male, che insegna poco e non si prefigge mai di spiegare le particolarità come essenza dell’umanità, delle culture. Se si facessero le pulci ai libri di testo, si riderebbe tanto, ci si arrabbierebbe tanto. Ma pure a leggere tanta parte dei testi giornalistici, dei discorsi politici, di molti romanzi di successo. La scuola no, la scuola non può scivolare così, perché ciò che ci infilano in testa da bambini, se è un concetto sbagliato, diventa un cavallo di Troia che fa saltare in aria gli equilibri che l’educazione scolastica dovrebbe costruire. La scuola serve a spazzare via le rappresentazioni, i luoghi comuni, quella vignetta, più che una svista, è un pezzo di passato che non passa, che riporta in mente “il calabrese” che il preside introdusse nella classe del maestro Perboni: “Entrò il direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, con i capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte, tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita”. Questo era il calabrese del libro Cuore, per molti è stato il calabrese per sempre, per alcuni lo è ancora. Ogni stereotipo che entra in una scuola è un masso di granito che si alza fra i bambini. Dopo. Servono anni a decine per sminuzzarlo.
