Politica industriale cercasi per affrontare i mali strutturali del made in Italy: bassa produttività e nanismo d’impresa

LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI, EMMANUEL MACRON PRESIDENTE REPUBBLICA FRANCESE

Al netto dei voti di inizio anno scolastico, i nostri conti pubblici vanno bene. A dirlo è la piena promozione dell’Fmi, che ci prevede in testa alle economie ammiraglie europee, Germania e Francia, entro il 2030. Giorgia Meloni quindi ha tutto il diritto di sentirsi soddisfatta. Con 1.063 giorni oggi a Palazzo Chigi, soffia sul collo al governo Craxi. Appena un mese e lo avrà raggiunto. Toccando ferro, la meta è vicina. Bilancio in ordine e stabilità sono il cocktail perfetto per far parlare bene di noi in Europa. Anche da chi, in passato, ci ha fatto le pulci e riso in faccia. “La femme forte de l’Europe” è titolo di copertina de L’Express di questa settimana.

“La Francia si deve ispirare a lei?” si domanda il settimanale conservatore francese. Forse sì. Salvo il problema della produzione industriale. Fiacca negli ultimi due mesi, in netta perdita fino a prima dell’estate. Nella sua ultima congiunturale, Federmeccanica ha detto che, nei primi sei mesi del 2025, la produzione metalmeccanica è diminuita in media del 4,3% rispetto al primo semestre 2024, evidenziando una perdita più marcata rispetto al comparto industriale nel suo complesso (-2,8%). Tutte valide le motivazioni.

La crisi tedesca, che Merz non ha ancora risolto. Su questo non c’è nulla da festeggiare. I costi dell’energia più alti d’Europa. Bruxelles che ha scritto una bussola della competitività, salvo poi perderla quando si è messa a trattare sui dazi con Trump. Il risveglio del protezionismo, non solo degli Usa. Tutto valido. Tutto giusto. Ma se è vero che il manifatturiero è ancora l’ossatura produttiva della nostra economia, allora va detto chiaro: qui c’è un problema di deindustrializzazione. Il fatto però che Ursula von der Leyen non abbia mai pronunciato la parola magica “politica industriale”, nel suo discorso sullo stato dell’Unione a Strasburgo dieci giorni fa, non solleva dal farlo la nostra premier.

L’agenda economica di un governo è fatta sì di conti pubblici. Ed è giusto che siano in regola. Questo non ci fa passare in automatico da “pig” a frugale. Quel che conta è che c’è anche una parte di economia reale da tenere sott’occhio perché, se funziona, fa dormire sonni tranquilli lavoratori e famiglie. Sulla manovra finanziaria si stanno scaldando i motori. La proposta di un taglio dell’Irpef ha il significato (politico-elettorale) di andare in favore del contribuente. Spingi sui consumi. Ci sta.

Serve però qualcosa anche a sostegno delle forze produttive. Non necessariamente di carattere fiscale e redistributivo. Bensì uno stimolo alla crescita da qui a 3-5 anni. Industria 4.0 e 5.0 sono in scadenza. È l’occasione per affrontare finalmente i mali strutturali del made in Italy, bassa produttività e nanismo d’impresa. È il momento di intervenire su un modello produttivo che, con difficoltà, ci farà sopravvivere in una globalizzazione sempre più conflittuale. Certo, uno dice: questi sono problemi che deve affrontare l’Unione europea. Eh, ma noi lì che ci stiamo a fare?