La cultura liberale e quella progressista oggi maledicono la post-verità, che è il massimo comune denominatore di populismo, sovranismo e giustizialismo. Ma come è stato possibile che un’idea così bislacca come quella delle “verità alternative”, dell’uso diverso degli stessi fatti a seconda delle convenienze, abbia avvelenato cognitivamente il mondo occidentale, dove grazie ad alcuni secoli di alleanza storica tra verità e libertà, resa possibile dalla scienza, oggi si sta meglio di sempre. Per Karl Popper i principi e valori liberali, cioè stato di diritto, eguaglianza di fronte alla legge e libertà personale, possono sopravvivere alla constatazione che i giudici fanno errori, la giustizia reale è imperfetta e non viviamo nel migliore dei mondi possibile, ma non all’accettazione dell’idea che “non esistono fatti oggettivi”. Nell’ultimo mezzo secolo la cultura umanistica e le scienze sociali in occidente hanno contratto una malattia cronica, il cui nome generico è relativismo.
Il relativismo, cioè la credenza che possiamo parlare solo di opinioni personali, tutte con la stessa dignità epistemologica e morale, è un’antica presenza nella cultura umana. Ed è anche una predisposizione psicologica, dato che gli studi che tracciano la maturazione dell’epistemologia nei giovani mostrano che essi arrivano (o noi arriviamo) spontaneamente a essere o dogmatici o relativisti, ma non a essere pluralisti, cioè a pensare in modo indipendente, a rispettare le prove, etc. Per questo serve dotarsi di una seconda natura, cioè apprendere alcune idee controintuitive, tra cui quelle scientifiche.
Il ceppo di relativismo che ha scavato culturalmente la fossa ai valori liberali è il postmodernismo o costruttivismo sociale o teoria critica, nato negli anni Sessanta-Settanta dall’insano matrimonio avvenuto in Francia fra marxismo, strutturalismo, fenomenologia e psicoanalisi. Il relativismo postmoderno si diffondeva come una infezione nel mondo intellettuale di sinistra, mentre declinava e si estingueva lo storicismo socialcomunista. Le parole d’ordine erano che la verità non esiste, ogni forma di pensiero è debole e l’oggettività sarebbe un miraggio generato dalle strutture e dai rapporti di forza sociali. Tutto è narrazione, la realtà è un testo, etc. come poi qualcuno avrebbe scritto. La diffusione del postmodernismo relativista nei dipartimenti umanistici nordamericani si realizzava con il sostegno degli intellettuali social-costruttivisti e di sinistra e nell’alleanza nelle battaglie contro l’apocalisse ambientale, il dominio umano sugli altri animali, la cultura maschilista, la scienza riduzionista, il potere medico-farmaceutico, etc. Si combatterono le culture wars: da una parte scienziati sociali e umanisti e dall’altra gli scienziati sperimentali.
Questi ultimi ridicolizzarono le fumosità e vuotezze linguistico-teoriche degli argomenti postmoderni, talvolta impedendo anche che professori costruttivisti entrassero a insegnare nei templi delle scienze dure. Tra gli episodi più significativi, articoli inventati e pubblicati su riviste umanistiche, ma anche scientifiche, per dimostrare da un lato che i postmoderni scrivevano insalate di parole senza senso, e dell’altro che gli scienziati potevano essere altrettanto ingannati malgrado il loro culto dell’oggettività.
Oggi qualcuno di quegli intellettuali relativisti, un po’ più intelligente come Bruno Latour, riconosce che la sfiducia nella scienza, generata anche da quelle polemiche che entravano nelle scuole e nei media, è la principale minaccia per i valori liberali dell’occidente. Perché, nel frattempo, il relativismo è stato fatto proprio, in una forma diversa, dai conservatori populisti. Negli anni Ottanta alcuni intellettuali conservatori e tradizionalisti come Allan Bloom, che in The Closing of the American Mind (1987) scriveva che il relativismo e la teoria critica chiudono invece di aprire le menti dei giovani, riportavano il fenomeno della perdita di presa della verità o della saggezza a cause socioeconomiche.
Bloom lamentava il lassismo dei genitori nell’educazione morale dei loro figli e denunciava l’industria della musica rock. La maggior parte degli intellettuali di destra ha però negato che il postmodernismo fosse conseguenza del consumismo e di altri sviluppi sociali e tecnologici su larga scala, ma fosse dovuto principalmente agli insegnamenti di pericolosi accademici di sinistra (“professori radicali a tempo indeterminato”). Oggi, intellettuali sia di destra sia di sinistra incolpano la teoria postmoderna per il disprezzo senza precedenti per la verità da parte di Trump e dai suoi collaboratori che diffondono “fake news” in modo sistematico, invocano “fatti alternativi”, affermano che “la verità non è la verità” (Rudolph Giuliani), etc.
Liberal o conservatori antirelativisti denunciano, per esempio scrivendo sulla rivista libertaria Quillette in modi quasi ossessivi, la “teoria critica” e il postmodernismo, e sostengono che «Trump è stato il primo presidente a rivolgere il postmodernismo contro se stesso». Gli intellettuali di sinistra, si pensi ai “biopolitici”, avevano difeso la ridicola idea che non esistono verità universali, ma solo percezioni soggettive plasmate dalle forze culturali e sociali dei tempi nei quali si vive. Oggi questa filosofia è usata spietatamente nella comunicazione da parte della destra populista: basta guardare mezz’ora Fox News. Peraltro i progressisti non hanno abbandonato le tradizionali faziosità e pregiudizi, per cui il caos culturale ormai dilaga e la politica è una questione di bande che si fanno, si disfano e si rifanno nel nome qualche obiettivo giustizialista. Gli intellettuali populisti o sovranisti quasi di sicuro non hanno letto Foucault, Baudrillard o Derrida, ma il precipitato di quel messaggio illiberale è facile da capire e sfruttare per intercettare i tanti analfabeti funzionali, che non devono più chiedersi se qualcosa sia falso o vero, o chi odiare ma solo farselo dire dal pifferaio manipolatore di turno.
