L’improcedibilità nei giudizi di appello dovrebbe essere l’extrema ratio. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia lo ha precisato nella tappa di Palermo del viaggio intrapreso fra le Corti d’appello del Paese. «L’improcedibilità ha suscitato tante discussioni, deve rimanere un’extrema ratio, possibilmente da non attivare mai» ha affermato. Un simile obiettivo sarebbe il segnale di una giustizia rapida, tempestiva. Ma non ci troviamo con i conti. Non nel distretto della Corte di appello di Napoli. Partiamo da quello che stabilisce la riforma, e cioè che l’improcedibilità scatta quando il processo di secondo grado non viene celebrato nell’arco di due anni calcolati a partire dalla data di scadenza del termine del deposito della sentenza di primo grado aumentato di novanta giorni. A Napoli si tradurrebbe nella morte, per improcedibilità, un’ampia parte dei processi d’appello. Perché? Nell’ultimo anno si sono contati circa 54mila procedimenti arretrati, i tempi di definzionedi un processo arrivano in media a mille giorni e per la trasmissione di una sentenza dal primo grado all’appello ci possono volere da sei mesi a dieci anni. Di questo passo, i processi arriveranno alle cancellerie delle Corti di appello già con il marchio della improcedibilità. E ci sarà poco da fare, in quel mare magnum di procedimenti finiranno anche molti, moltissimi, casi di processi a carico di persone che avrebbero tutte le condizioni per essere assolte in secondo grado dopo una prima sentenza di condanna. Il caso più emblematico della storia giudiziaria, del resto, ce lo ricorda. Pensate a Enzo Tortora, ingiustamente condannato in primo grado e assolto nel giudizio di appello istruito da tre giudici che per superare le fumosità dell’istruttoria del primo processo decisero di riaprirla. L’avvocato Alfredo Sorge lo ha ricordato bene in occasione, giorni fa, del convegno di Area Democratica per discutere della riforma del processo penale.
«Antonio Rocco, Michele Morello e Carmine Ricci vollero vederci chiaro e in una rinnovazione del dibattimento che all’epoca era super eccezionale rifecero l’istruttoria e sentirono uno a uno i testimoni. Seppero e vollero fare giustizia», ha ricordato l’avvocato Sorge, penalista e componente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli. «Se si mettono ganasce così forti ai magistrati di appello non si fa bene», ha aggiunto esprimendo perplessità sulle limitazioni previste per i giudizi di secondo grado. Quella prodotta dalla riforma rischia di essere una giustizia a due velocità, tenuto conto che i termini dell’improcedibilità sono previsti per il secondo e non per il primo grado. A ciò si aggiunga che tutte le risorse sono generalmente concentrate fra la Procura e il Tribunale, lasciando le briciole alle Corti di appello. Il presidente del distretto della Corte d’appello di Napoli, Giuseppe De Carolis di Prossedi, ha più volte sottolineato lo sbilanciamento e, intervenendo al convegno, ha evidenziato la necessità di una diversa distribuzione di magistrati e personale amministrativo. «Il problema è che quando si discutono le riforme bisognerebbe avere una visione di sistema che anche in questo caso non c’è», ha commentato. «Se tutto funzionerà come previsto dalla riforma si avrà un 90% di sentenze di condanna, il cui impatto sarà superiorie a quello attuale pesando sull’appello». Restano, quindi, le perplessità di fornte a numeri che descrivono una situazione resa singolare non solo dalla quantità ma anche dalla qualità dei processi. Al momento per ogni cinque sentenze di primo grado se ne conta una in appello. «Pensare di eliminare gli arretrati uccidendo i processi dopo due anni non mi sembra il modo più coerente – ha concluso De Carolis -. La riforma è garantista quando tutela le garanzie che servono ad impedire che un innocente venga condannato, non a garantire l’impunità ai colpevoli e produrre una giustizia diseguale».
