Procura di Milano a pezzi, assolti Mantovani e Garavaglia: non era la nuova Tangentopoli…

Non era la “Nuova Tangentopoli” e non c’era l’”Entourage” del malaffare. Sono passati sette anni da quel 13 ottobre del 2015 in cui Mario Mantovani era stato arrestato con grande clamore perché era il vicepresidente della Regione Lombardia di Roberto Maroni. Corruzione e concussione, abuso d’ufficio e una turbativa d’asta in cui insieme a lui risultava indagato anche l’assessore al bilancio, il leghista Massimo Garavaglia. E una telefonata, ritenuta centrale per l’inchiesta, in cui la parola “vita” era stata interpretata come “villa”. Succede, succede, succede.

Assoluzioni perché “il fatto non sussiste”, “il fatto non sussiste”, “il fatto non sussiste”. Non esisteva nessun reato, neppure quello che imputava a Mario Mantovani il reato di abuso d’ufficio quando, nella veste di sindaco della sua città, Arconate, aveva bandito una gara per la costruzione di una casa di riposo. Il reato nel frattempo si è prescritto, ma la corte d’appello ha voluto pronunciare sentenza di assoluzione ugualmente. Cosa che non succede di frequente, se non quando un magistrato vuol bacchettare quello che ha commesso stupidaggini giudicando prima di lui. E pensare che in quel 2015 giornali e televisioni strillavano sullo scandalo che aveva investito la Lombardia, la più grande Regione italiana, sempre oggetto di appetiti di chi non riusciva a vincere le elezioni e di attenzioni da alcuni ambienti giudiziari. Mario Mantovani era noto come persona perbene e anche come politico molto apprezzato dai suoi elettori. Alle regionali era stato il primo di tutti i partiti con 13.000 preferenze. Era stato senatore e sottosegretario e anche al Parlamento europeo era stato eletto con particolare successo. Un uomo di potere, certo. Ma è anche sempre stato uno che la politica l’ha vissuta come passione, e in quegli anni a Milano c’era una questione giustizia molto spinosa che si chiamava “caso Berlusconi” e “processo Ruby”.

Così il vicepresidente della Regione, con lo spirito del militante politico, aveva preso un palchetto e ogni mattina si metteva in piedi davanti al Palazzo di giustizia, proprio dal lato in cui entrano gli avvocati e i magistrati, e teneva discorsi. Un tribuno. Insieme a lui arrivavano parlamentari, assessori e consiglieri e tanti altri militanti di Forza Italia. C’era sempre tantissima gente, e tutti parlavano, si fermavano avvocati e qualche magistrato. Mentre Berlusconi veniva assolto nel processo d’appello, la procura continuava a indagare e indagare, e ancora non è finita con i processi 2 e 3 fino all’infinito. E Mario Mantovani continuava i suoi comizi sul palchetto al Palazzo di giustizia. Un mese dopo era in manette a San Vittore. Quella mattina del 13 ottobre sull’uscio della sua casa di Arconate c’erano già i giornalisti, oltre alle manette pronte.
Quaranta dì, quaranta notti, come nella famosa canzone della mala milanese “Ma mi”. L’arresto di Mario Mantovani era stato un fatto così clamoroso da trasformare i corridoi di San Vittore in succursali del Parlamento e della Regione.

Gli esponenti di tutti i partiti (con la sola eccezione dei Cinque stelle, ma eravamo nel 2015, magari oggi qualcuno di loro andrebbe anche a trovare un detenuto) facevano a gara per affacciarsi alla sua cella. Persino due volte Salvini, tutt’altro che garantista e non ancora illuminato sulla via referendaria. Tanto che –ecco perché “solo” quaranta giorni- a un certo punto il pm ha detto di mandarlo ai domiciliari “così a casa non avrebbe più visto nessuno”. Scritto nero su bianco. Altri centoquaranta giorni ai domiciliari, fino a che il suo avvocato Roberto Lassini, che lo assiste insieme al professor Guido Calvi, non ha scoperto un errore dei magistrati che ha reso la libertà e la prima boccata d’aria all’imputato. I magistrati sbagliano, certo, che novità. Anche sulla libertà, quella degli altri, ovvio. Ma i casi della vita sono tanti, e a volte strani. Così, una volta rinviato a giudizio, insieme a Massimo Garavaglia, al suo assistente Giacomo Di Capua, trascinato in una vicenda non sua, e ad altri dodici imputati, ecco Mantovani davanti al tribunale che deve giudicarlo in modo imparziale. E chi si ritrova, seduta sullo scranno più alto, se non la stessa presidente Giulia Turri, quella che aveva condannato Berlusconi insieme alle due giudici laterali per il primo processo Ruby? Quelle tre che il leader di Forza Italia aveva definito “femministe e comuniste?”.

Chissà se quel giorno della prima udienza Mario Mantovani ha rimpianto quei comizi sul palchetto, chissà se la presidente gli ha lanciato qualche occhiatina ironica, mentre valutava le accuse gravissime di cui doveva rispondere colui che fino a poco tempo prima si era esibito come tribuno a criticare la sua sentenza su Berlusconi. Fatto sta che quel tribunale aveva poi fatto salti logici per separare la posizione di Massimo Garavaglia, assolto per non aver commesso il fatto, da quella di Mantovani, condannato per averlo commesso. Ma il problema è che il fatto non c’era proprio. I due erano sospettati di aver tentato di far annullare una gara per il trasporto dei disabili, in quanto le Croci locali dell’area territoriale dell’attuale ministro, che avevano fino a quel giorno svolto il servizio, non avevano la possibilità economica di concedere un’adeguata cifra a titolo di fideiussione. Poi non era successo niente, perché la gara era già stata annullata. Ma c’era stata una triangolazione di telefonate, Garavaglia a Mantovani e lui al dottor Scivoletto, presidente della Asl Uno di Milano, quella che doveva indire la gara. Proprio perché nulla era accaduto, è stato facile per la corte d’appello – che ha riaperto le indagini, mostrando da subito la propria autonomia dal Pensiero Unico che ha dominato per anni a Milano – demolire l’accusa che era stata fatta propria dal tribunale del processo di primo grado. Quello che a Mantovani non aveva concesso neanche le attenuanti a causa del suo “comportamento spregiudicato” e della sua “mancanza di resipiscenza” , come era stato scritto nella motivazione di ben 350 pagine.

Era stato “spregiudicato” nel rapporto con un architetto, in una vicenda simile a quella che aveva rischiato di travolgere il sindaco Beppe Sala e che era finita in niente. Ma qui c’era stata una sorta di intercettazione in cui nella frase “per la prima volta nella vita” era diventata “nella villa” e aveva aperto il filone della corruzione: non pago l’architetto e gli faccio in cambio qualche favore. Il presidente della corte d’appello ha voluto far sentire in aula l’intercettazione, e il sospetto si è volatilizzato. C’era poi un’altra accusa, la più grave, per concussione, quella da cui tutto era partito e che aveva determinato l’arresto del 2015, già caduta nel processo di primo grado, ma su cui il pm aveva fatto ricorso. Anche nell’appello la pubblica accusa non si era risparmiata, chiedendo ancora carcere, anche per quello: un anno e mezzo per Garavaglia e sei anni e mezzo complessivi per Mantovani, un anno in più della condanna di primo grado. Ma il presidente ha voluto celebrare un vero processo, come a Milano in passato pareva non fosse più possibile fare. L’imputato Mantovani ha potuto parlare per 47 minuti. Ha sollevato dieci questioni e le ha illustrate punto per punto.

Le diverse violazioni dell’articolo 111 della Costituzione, quella sul giusto processo, prima di tutto. Perché lo avevano indagato per quattro anni senza mai notificarglielo e perché poi, il giorno dell’arresto, i giornalisti erano già sull’uscio insieme agli uomini della guardia di finanza. E perché era stato intercettato mentre era senatore. E poi perché il gip, che aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare dopo ben un anno dalla richiesta del pm, veniva continuamente pressato dalla Gdf perché si decidesse a mandarlo in galera, anche con notizie false. “Ho avuto una grande fortuna, dice oggi l’ex vicepresidente della Regione Lombardia, perché ho incontrato giudici veri e coraggiosi. Quelli che valutano le prove e cercano quella verità che in primo grado sembrava un optional. Ma la mia fortuna è dovuta anche al fatto che in questi sette anni ho sempre avuto vicino la mia famiglia e anche perché ho una certa disponibilità economica. Penso a quei tanti cittadini che sono costretti a soccombere nel processo perché non hanno possibilità economiche o hanno difficoltà di ordine sociale”. Poi la stilettata politica finale: “È come se avessero avuto l’ordine di uccidere”. Chissà se qualcuno in quei giorni dei processi Ruby ha preso la mira e tirato a quel palchetto.