C’è stato un tempo in cui gli imprenditori italiani erano illuminati. Élite importanti del capitalismo e della borghesia settentrionale coglievano e animavano lo spirito del tempo progressivo all’incrocio tra modernità tecnica e recupero della tradizione umanistica. La rinascita del Paese – pensavano questi grandi uomini i cui nomi sono per lo più dimenticati – non deve essere solo un fatto economico ma anche morale, cioè culturale.
Era un altro mondo. È una storia meravigliosa quella che racconta Marco Ferrante in questo “Cultura e imprese, un caso italiano – Breve storia di «Civiltà delle Macchine»” (Quodlibet), la prestigiosa rivista nata nel 1953 e tra varie vicende vissuta fino al 2024, diretta negli ultimi quattro anni appunto da Ferrante. Ricorrono nomi mitici. «Nel settore privato testimoniano un impegno alcuni casi imprenditoriali di primo piano come Florio, Gualino, Olivetti, Pirelli, Feltrinelli – scrive l’autore del saggio – e inoltre ci fu una borghesia confluita nella grande impresa pubblica che a partire dagli anni Trenta fu sempre presente nella vita culturale italiana, e che nel Dopoguerra – per esempio – consacrò insieme alla Olivetti il fenomeno degli artisti e degli intellettuali alla guida delle istituzioni di propaganda. Sinisgalli in Finmeccanica, Eugenio Carmi all’Italsider, e Attilio Bertolucci, chiamato nel 1955 da Enrico Mattei a dirigere la rivista dell’Eni, “Il Gatto Selvatico”».
Su tutte queste iniziative editoriali, sorte per impulso delle grandi aziende pubbliche e private (la prima in ordine di tempo fu la Pirelli, con la famosa “Rivista Pirelli”), svettava appunto “Civiltà delle Macchine”. Ferrante ricostruisce il clima nel quale nacque e prese forza: «Gli anni Cinquanta, in generale sottovalutati dal conformismo delle classificazioni con cui scandiamo il tempo, furono gli anni in cui l’Italia gettò i semi del benessere e di una modernità che forse non fu mai più moderna di allora e che rendeva compatibili le ragioni dello sviluppo economico, del progresso sociale e del tentativo di colmare le molte diseguaglianze con i tratti della specificità italiana: il patrimonio di bellezza, il talento come ingrediente del carattere nazionale, l’irrequietezza antropologica delle persone (…) Fu un decennio fondativo che si chiuse con la celebrazione stereotipata di una vita dolce, poi attribuita estensivamente ed erroneamente al decennio successivo, che così dolce non fu».
La figura preminente dell’avventura di questa rivista modernissima per contenuti, obiettivi, grafica fu senz’altro Giuseppe Luraghi: «Fu l’inventore di una moderna comunicazione d’impresa e puntò sempre a rappresentare una coscienza avanzata dell’industrialismo anche nella sua espressione estetica e nella base filosofica del suo ruolo. Per lui l’impresa ha un compito extra-industriale». Luraghi è il manager, diremmo oggi, che da una parte fece grande l’Alfa Romeo – la leggendaria “Giulietta” – e contemporaneamente fu l’anima di una rivista nella quale si trovavano a meraviglia un poeta come Giuseppe Ungaretti, i grandi pittori della rinascita artistica italiana e i pionieri di quella sociologia dell’industria che tanta fortuna ebbe in pieno boom economico.
L’altro cervello di “Civiltà delle Macchine” fu Leonardo Sinisgalli, grande personaggio per molti versi complementare a Luraghi; è lui il primo direttore della rivista. Scrive Ferrante: «Sinisgalli lascerà la direzione della rivista nel 1958 poco dopo l’uscita di Luraghi da Finmeccanica. Tornerà con lui in Alfa Romeo dove faranno insieme molte altre cose. Per alcuni decenni a venire la rivista fondata da Sinisgalli e Luraghi svilupperà una grande influenza sulla cultura d’impresa e sull’umanesimo industriale. “Civiltà delle Macchine” continuerà a vivere, ancora bellissima, sotto un’altra direzione, quella di Francesco Flores d’Arcais. Quando nel 1980 cessano le pubblicazioni (riprenderanno prima nella versione di “Nuova Civiltà delle Macchine” nel 1983 e poi nel 2019, edita da Fondazione Leonardo), Luraghi settantacinquenne scrive al suo compagno d’avventure la lettera già citata. “Veramente per me la rivista è morta da tempo. Però, questo funerale ufficiale non manca di addolorarmi”».
La complessità della vita di una rivista di questo tipo, in relazione ai cambiamenti del tempo, è troppo vasta per darne conto qui. Fatto sta che a un certo punto “Civiltà delle Macchine” chiude. Ma ha evidentemente in sé un qualcosa che non muore. Nel 2019 riapre. La nuova società Leonardo, sulle ceneri di Finmeccanica, si pone il problema di come mostrare sé stessa rispetto a un mondo sconvolgentemente in evoluzione. «L’impronta originaria di “Civiltà delle Macchine” – scrive Ferrante – puntò a far convivere una impostazione industrialista, ottimista, sviluppista, che spuntava dall’Italia uscita dalla guerra, con un racconto, capace anche di malinconia, in cui tre elementi perenni del carattere culturale nazionale – scienza, umanesimo e arte come cerniera –convivessero. È ancora un punto di partenza?». Nessuno è in grado di dire se nel tempo non più delle “macchine”, ma degli algoritmi, una grande rivista abbia senso. Leggendo questo bel volume, parrebbe di sì.
