Il Presidente della Repubblica di Timor Est, José Ramos-Horta, parla bene cinque lingue. Lo incontriamo a Roma, quando esce dal lungo colloquio che ha avuto con Papa Leone XIV in Vaticano. Lo aspetta una macchina che lo porterà all’Università Link Campus: lectio magistralis e conferimento della cattedra in Diplomacy for Peace. Non a caso. Ramos-Horta, 75 anni di cui 25 passati in clandestinità, è Premio Nobel per la Pace dal 1996. A lungo consigliere delle Nazioni Unite, è stato Special Rapporteur per la risoluzione di numerosi conflitti. A lui, in questo momento in cui la storia si trova al bivio, rivolgiamo qualche domanda.
Presidente Ramos-Horta, il mondo deve decidere se fare la pace o continuare la guerra, che strada prenderà?
«Se le persone fossero guidate dalla razionalità, la guerra non esisterebbe. Morte, impoverimento, fame, distruzione e arretramento dei valori umani sono le caratteristiche della guerra. E siccome lo sappiamo tutti, farla non è mai razionale. Troppe volte l’essere umano è guidato da istinti ciechi».
Lei ha sviluppato tecniche negoziali che…
«Prima di sviluppare le tecniche – mi interrompe – vorrei che le persone provassero a stimolare la loro umanità. Non si tratta di come si riesce, con quanti sforzi e dopo quanti anni, a far terminare le guerre. Farle finire non è mai facile e non può essere mai veloce. E allora si tratta di prevenirle».
Un richiamo etico. Giusto. Come si applica?
«Facendo crisis prevention. La risoluzione preventiva dei conflitti è la parte più importante e più necessaria dell’azione diplomatica, e insieme la meno battuta. Troppo spesso le organizzazioni internazionali si preoccupano di intervenire nei conflitti in corso, mai di scongiurare che inizino. Eppure lì sta tutto. Perché una volta che l’incendio si propaga, spegnerlo comporta sempre vittime e danni».
Ci dia la sua formula.
«Tre azioni necessarie, per chi lavora per la pace: prevenire i conflitti, agevolare la riconciliazione, anticipare la ricostruzione. Sono tre nodi concatenati tra loro».
Come agiscono?
«La tensione si scatena per motivi territoriali, etnico-religiosi, di sfruttamento delle risorse. Niente succede mai per caso e niente può accadere davvero all’improvviso. Gli analisti hanno oggi tutti gli strumenti per capire a che livello sta la tensione. Lì bisogna lavorare, costringere i contendenti a sedersi a un tavolo di trattativa preventiva. Per scongiurare che qualcuno spari un primo colpo».
E poi?
«Poi si lavora alla riconciliazione, soprattutto se quel primo colpo è stato sparato. È fondamentale evitare la demonizzazione del nemico. Anzi, trasformare il nemico in avversario, anche in termini di comunicazione. Perché spesso chi governa agisce sulla leva della guerra incentivando l’odio tra gruppi, etnie, religioni o Stati confinanti. Si deve avere chiaro che nessuno, sulla Terra, incarna il Male assoluto. Ciascuno ha i suoi torti e le sue ragioni, spesso mal distribuiti. Si deve lavorare sull’odio come si opera per spegnere un incendio. Va ridotto, isolato, contenuto. E infine spento».
Infine, la ricostruzione «anticipata», cosa intende dire?
«Si deve lanciare chiara e da prima possibile l’idea di una ricostruzione ravvicinata, l’idea che dalla guerra si deve uscire subito per rafforzare l’economia, ridare case alla gente, forza lavoro alle imprese. Si fa capire che con la pace arriveranno investimenti internazionali, progresso civile e sociale, ma anche e da subito urbanistico e architettonico. Se si ricostruiscono palazzi e città, rinasce un tessuto produttivo, una filiera di lavoro qualificato, una economia di scala».
Nella sua Timor Est è andata così?
«Sì, ci abbiamo messo tanti anni ma è andata così. Siamo un piccolo paese di retaggio europeo e religione cattolica circondato dall’Indonesia, la nazione islamica più popolosa del mondo. Da noi i cattolici sono il 99,6%, loro sono al 100% musulmani. Mai li abbiamo demonizzati, mai abbiamo detto che incarnano il peggio. Abbiamo condannato le loro pretese territoriali e difeso la nostra integrità, riconoscendo la loro sovranità e il valore della loro religione. Abbiamo preso le misure e imparato a rispettarci. Non è stato facile. Oggi Timor Est vive da trent’anni in pace. La disoccupazione è sotto al 2%, l’inflazione allo 0,5% annuo».
Ucraina e Medio Oriente sono situazioni molto complesse, con conflitti incarniti nella storia…
«Lo sono quasi tutti i conflitti. Ho lavorato molti anni in Africa, ci sono etnie che si combattono da secoli – anche se una parte del mondo non se ne è mai accorta – e la regola vale per tutti: prevenzione, riconciliazione, anticipo della ricostruzione. Le guerre si possono evitare, anche con compromessi e rinunce. Purché le ragioni degli uni e degli altri vengano rispettate, le condizioni non impongano mai di umiliare uno dei contendenti, le parti accettino un arbitrato internazionale e capiscano entrambe che di compromessi, piccoli e grandi, è fatta la vita di ciascuno di noi».
