Giudicare è insieme un compito necessario e impossibile. Lo ricordava Glauco Giostra: necessario, perché una società non può restare indifferente davanti a comportamenti incompatibili con la convivenza civile; impossibile, perché la giustizia umana resta segnata da un insopprimibile margine di fallibilità. Noi non conosciamo la verità, o, meglio, non possiamo mai essere certi di averla raggiunta. La certezza di oggi può trasformarsi nell’errore di domani. Per questo ci dotiamo di regole e forme: il processo penale nasce come strumento di garanzia, con la funzione di ridurre al minimo il rischio di errore. In quest’ottica, nel 1988 il legislatore decise di archiviare l’esperienza del codice di rito fascista, già da tempo temperato da interventi della Corte costituzionale, che avevano contrassegnato una stagione di “garantismo inquisitorio”.
Si scelse di voltare pagina e adottare il modello accusatorio, abbracciando una nuova epistemologia giudiziaria: contraddittorio nella formazione della prova, parità delle parti, terzietà del giudice. Principi scolpiti poi nell’articolo 111 della Costituzione, recepiti quali strumenti più evoluti, capaci di rendere la giustizia meno vulnerabile agli errori e più rispettosa del diritto di difesa. Ma quel modello, a quasi quarant’anni dalla sua introduzione, fatica ancora ad affermarsi pienamente. E la fase più delicata resta indubbiamente quella delle indagini preliminari.
Il rapporto tra PM e GIP
Non solo perché l’articolo 358 c.p.p., che onera il pubblico ministero a svolgere indagini anche a favore della persona sottoposta a indagini, si è rivelato in larga parte inapplicato. Ma anche, e soprattutto, perché, in questa fase, il rapporto tra Pubblico Ministero e Giudice per le indagini preliminari — che dovrebbe essere improntato a terzietà e controllo del secondo sul primo — si è trasformato nella prassi quotidiana in una relazione troppo spesso simbiotica. Il GIP, anziché esercitare un vaglio critico ed effettivo sulle iniziative del PM, tende sovente a recepirle senza un effettivo scrutinio. Le richieste di proroga delle indagini vengono concesse de plano; le intercettazioni, strumento invasivo ma potentissimo, sono autorizzate con grande favore; le ordinanze cautelari, che incidono sulla libertà personale, sono emesse con motivazioni che raramente denotano un’autonoma valutazione. In molti casi, più che di controllo, si ha l’impressione di assistere a una ratifica quasi notarile.
Nessun cambio di rotta
La riforma Nordio ha cercato (nelle intenzioni) di invertire la rotta in materia cautelare personale, introducendo in alcuni casi l’interrogatorio anticipato, cioè la possibilità di un contraddittorio preventivo prima dell’applicazione di una misura coercitiva. Un tentativo di reintrodurre equilibrio in un momento decisivo per la vita e la libertà dell’indagato. Ma la portata innovativa della norma, a giudicare dalle sue prime battute, si è rapidamente ridimensionata: le ampie possibilità di deroga, unite all’agevole possibilità di “aggirarne” l’applicazione, hanno reso la disciplina poco innovativa. Come si registra nella prassi, è bastato “rispolverare” il pericolo di fuga (prima quasi mai ravvisato) o di inquinamento probatorio (impennatosi dopo la riforma) per legittimare la mancata applicazione della novella. Il risultato, in quattro decenni di codice, è stato un sostanziale indebolimento di un principio cardine: la presunzione di innocenza. L’assenza di un vero controllo del GIP sul PM ha favorito un sistema in cui il rischio di errori giudiziari rimane elevato, e il prezzo viene pagato da chi subisce restrizioni della libertà personale senza adeguate garanzie.
Ma la mancanza di contrappesi è ancora più radicale: riguarda anche il rapporto tra PM e polizia giudiziaria. È frequente che le ordinanze cautelari finiscano per essere scritte, di fatto, dagli organi di PG, con motivazioni che ricalcano pedissequamente i rapporti investigativi, per relationem. Ecco perché il problema non è solo normativo, ma culturale. PM e GIP, sotto la pressione mediatica e sociale che accompagna i fatti più gravi e immediati, finiscono spesso per rispondere a esigenze di difesa sociale, trascurando proprio quel sistema di regole pensato per bilanciare l’impulso repressivo con la tutela della libertà individuale.
I principi del modello accusatorio rischiano di restare sullo sfondo
In questo clima, i principi del modello accusatorio rischiano di restare sullo sfondo, mentre prevale una prassi che guarda più all’efficacia investigativa che alle garanzie processuali. La domanda che si pone è dunque inevitabile: come recuperare quella distanza necessaria tra chi accusa e chi giudica? Un rimedio necessario, anche per completare il percorso di ammodernamento avviato nel 1988, è la separazione delle carriere. Non come panacea, ma come strumento per restituire forza culturale e istituzionale alla grammatica del giusto processo, rafforzando la presunzione di innocenza e la reale terzietà del giudice. Perché senza questa distanza, senza contrappesi autentici nella fase investigativa, il rischio resta quello di legittimare un sistema in cui le libertà fondamentali possono essere compromesse proprio nel momento più delicato del procedimento: quello in cui si decide se e come limitare la libertà personale di un cittadino ancora presunto innocente.
