Referendum separazione carriere, partiamo dal Sì come primo passo per riformare la Giustizia che non funziona

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla Camera dei deputati festeggiano dopo il voto finale sul ddl costituzionale “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”, Roma, Giovedì 18 Settembre 2025 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse) Foreign minister Antonio Tajani and Justice minister Carlo Nordio in the Chamber of deputies celebrate after the final vote on the constitutional bill relating to the judiciary system and the establishment of the Disciplinary Court, Rome, Thursday, September 18, 2025 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)

Il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini (dei Montecchi e dei Capuleti) è pronto a dividersi ancora una volta in due, tra un “Sì” e un “No”. In primavera ci sarà da votare sul referendum confermativo costituzionale collegato alla riforma approvata dal Parlamento sulla separazione delle carriere dei magistrati. Mentre si preparano le barricate, faccio outing: voterò sì. Convinto. Ma senza credere che questa legge sia una “riforma della Giustizia”.

Non amo il “benaltrismo”, quindi non dico che “ci vuole ben altro” per riformare l’amministrazione della Giustizia in Italia. Ma ritengo che la riforma della Giustizia debba riguardare il funzionamento dell’amministrazione del bene più sensibile (oltre alla Salute) che riguarda un cittadino. La separazione delle carriere aiuta a far funzionare meglio quella macchina infernale che produce mille errori giudiziari all’anno? Può essere una premessa utile e opportuna, ma la questione sostanziale resta altrove. E mi piace accodarmi alla saggezza e alla competenza di Sabino Cassese. Al di là del merito della riforma, “la questione fondamentale della giustizia” è, per Cassese, “la durata dei processi, delle cause pendenti che ne conseguono e quel piccolo numero di magistrati militanti, che mostrano che non c’è una vera indipendenza della magistratura nella misura in cui c’è una forma di esondazione dall’area dell’organizzazione della magistratura come un ordine separato previsto dalla Costituzione. La Costituzione aveva previsto il Csm come scudo contro le interferenze della politica sulla giustizia; oggi accade l’opposto a questo: è la giustizia che esce dall’ordine giudiziario ed entra nella politica”.

I Parodi e i Gratteri possono aggiungere quello che vogliono, l’Anm può fare tutti i programmi e i manifesti che ritiene – ha compilato otto “proposte per una giustizia più efficiente” come se si trattasse di una controparte sindacale – ma i giudici non dovrebbero dimenticare che sono loro ad “amministrare” la Giustizia, a disporre carcerazioni preventive spesso oltre le condizioni previste dalla legge, così come a disporre scarcerazioni di delinquenti impenitenti con una discrezionalità che è poco definire opinabile; sono loro a prolungare indagini oltre i limiti previsti, a diluire i tempi di un procedimento nell’arco di decine d’anni. Salvo poi ammettere che si tratta di “tempistiche” non adeguate a un Paese civile. È solo un problema di organici? O di digitalizzazione? O è piuttosto la solita asimmetria che colpisce il cittadino quando ha a che fare con un potere dello Stato?

Che la Giustizia in Italia non funzioni è un dato di fatto. La riforma approvata dal Parlamento sulla separazione delle carriere può essere una premessa opportuna, ma non vorrei sentire risuonare un trionfo improprio come se d’ora in avanti i cittadini potranno contare su una Giustizia efficace ed efficiente. Non bastano i decreti, benché convertiti in legge, a risolvere i problemi. Lo abbiamo visto in questi giorni: il cosiddetto “decreto rave party” che fece discutere sulle limitazioni alla libertà, in cambio di una certezza per la proprietà privata, si è dimostrato sostanzialmente inutile, riproponendo lo stesso problema, nello stesso luogo, probabilmente con le stesse persone. La legge che separa le carriere dei magistrati – l’avvocato Coppi cala un asso pesante, quando dice che basterebbe l’onestà intellettuale dei magistrati – non dovrebbe diventare una “bandiera”, tantomeno un argomento per politicizzare il dibattito in Italia da qui alla prossima primavera: potrebbero bastare le ultime elezioni regionali.

Eppure, è tutto un fiorire di comitati, per il “sì” e per il “no”. E in parte è giusto così: basterebbe solo che la scelta di campo fosse fatta con buone ragioni, non con pregiudizi ideologici o politici. Avremmo bisogno di buon senso e di “laicità”. E come tutti i cittadini italiani vorremmo sperare in qualche altra riforma della Giustizia, da qui alla primavera 2026, per far funzionare meglio l’amministrazione e per rigenerare un po’ di quella fiducia che si dovrebbe avere in una Magistratura che se la sapesse meritare.