Nel lontano 1980 ci fu un “preambolo” che fu destinato a fare la storia nella vita politica e democratica del nostro Paese. L’ormai famoso “preambolo” di Carlo Donat-Cattin, leader della sinistra sociale della Dc, scritto durante il 14° congresso nazionale di quel partito, che sanciva la netta chiusura dell’accordo di governo con l’allora Pci di Berlinguer, aprendo così la strada a un centrosinistra a guida Dc e Psi. Altri tempi, altra classe dirigente e, soprattutto, altro contesto politico nazionale e internazionale.
Ma c’è un “preambolo”, oggi, che sarebbe invece alquanto necessario e indispensabile se si vuole contribuire a rinnovare la politica italiana da un lato senza cadere, dall’altro, nell’avventurismo, nell’improvvisazione e nella crisi irreversibile della qualità della nostra democrazia. È un “preambolo” che si riassume in poche parole: no al populismo. Semplice, netto e carico di significati politici, culturali, programmatici e anche etici. Perché il no al populismo significa inaugurare una stagione politica dove vengono banditi alla radice alcuni disvalori che hanno profondamente corroso le fondamenta del nostro ordinamento democratico e dello stesso impianto costituzionale. Parlo di alcune derive specifiche che si nascondono dietro il populismo. E cioè il giustizialismo, la trivialità, la mancanza della cultura di governo, l’impreparazione della classe dirigente, la volgare propaganda, la mancanza di un retroterra culturale, il trasformismo politico e l’opportunismo parlamentare.
Regionali, il Movimento 5 Stelle detta legge
Derive e disvalori che abbiamo potuto sperimentare concretamente in questi ultimi anni dopo l’avvento del grillismo nel lontano 2013 e che, purtroppo, continuano a mietere consensi in modo trasversale. Basti pensare al ruolo della Lega all’interno del campo del centrodestra e al peso, determinante e decisivo, che i 5 Stelle di Conte continuano ad avere nella coalizione dell’attuale sinistra progressista. Al punto che, grazie al camaleontismo che li caratterizza, sono sempre più determinanti non solo nella scelta delle candidature, ma soprattutto nella costruzione dei programmi nelle varie Regioni che andranno al voto nei prossimi mesi. A cominciare dall’introduzione di un singolare, nonché anacronistico, “reddito di cittadinanza” nei vari territori regionali. Per non parlare di un moralismo giustizialista e manettaro che era, e resta, agli antipodi di una sana, corretta e trasparente concezione dello Stato di diritto.
Un argine al populismo
Per queste ragioni, e per molte altre che si potrebbero elencare come frutto e conseguenza di una concezione che non rispecchia affatto i valori e i princìpi scolpiti nella Costituzione, l’alleanza con i populisti va combattuta sotto il profilo culturale, etico e programmatico. E va combattuta a viso aperto. Ammesso che si voglia conservare e rafforzare la qualità della nostra democrazia, la credibilità delle nostre istituzioni democratiche e la stessa efficacia dell’azione di governo. Forse è arrivato il momento, nel centrodestra, ma soprattutto nella coalizione di sinistra, di porre un vero e serio argine politico al populismo. Non può più essere la solita logica del pallottoliere la regola principe che disciplina la formazione delle future coalizioni. Perché il populismo è la vera alternativa di una seria e credibile cultura di governo.
