Incontro in un bar Piero Tacconi, un marchigiano trapiantato a Roma dai tempi degli studi universitari e rimasto (“incatenato” dice) nella capitale anche dopo la laurea. Dopo aver vissuto in affitto in diversi quartieri, con la sua compagna decise quindici anni fa di stabilizzarsi nel quartiere di Tor Pignattara. La decisione fu presa dalla coppia per due motivi: i collegamenti comodi con il resto della città e la vitalità che si avverte nelle strade.
Piero è un operatore sociale quasi cinquantenne con una esperienza trentennale nelle cooperative che promuovono l’inclusione sociale e lavorativa di persone con disabilità e l’integrazione e l’accoglienza dei minori non accompagnati stranieri e non. Adesso la cooperativa in cui opera ha sede nel quartiere Appio Latino e lavora con rifugiati e richiedenti asilo. Dunque, è una persona che conosce i fenomeni migratori e può illustrarci con competenza e sensibilità etico-culturale gli aspetti sociali della difficile convivenza in un quartiere multietnico. La premessa della chiacchierata è lo stato dell’arte delle politiche sociali: «Sono insufficienti in generale e tale carenza si ripercuote negativamente sugli immigrati ma anche sugli italiani. Ho sempre davanti a me l’immagine di Mustafa Fannane, il senza dimora marocchino croce e delizia degli abitanti di Tor Pignattara, deceduto tre anni fa. Erano evidenti la sua dipendenza da alcool e la sua sofferenza psichica. E, pertanto, insieme ad altre persone del quartiere inutilmente contattammo più volte le istituzioni perché il ragazzo fosse preso in carico dai servizi sociali. Ma la risposta era sempre e soltanto di tipo repressivo: allontanamento dalla capitale per disturbo della quiete pubblica. Era considerato un elemento di seccatura e di fastidio da rimuovere. E puntualmente egli tornava nel quartiere a cui si era affezionato. Scoprimmo così l’inesistenza di un servizio pubblico che si prendesse cura di persone come lui e li accompagnasse in un percorso di recupero. Una carenza generale per chiunque si trovasse in quella condizione. Ma la vicenda Mustafa alimentava panico collettivo in modo raddoppiato perché si trattava di uno straniero».
Esistono poi altre carenze: «Mancano sportelli per garantire agli immigrati una buona mediazione culturale e linguistica e l’accesso effettivo ai servizi sanitari. Spesso se ne fanno carico gli insegnanti nelle scuole o i comitati dei genitori. Ma non sono compiti che spettano a loro. Mancano strutture ‘cuscinetto’ dove chi arriva possa ambientarsi e svolgere le prime attività abitative, mentre impara la lingua. Un bangladese giunge nel quartiere generalmente attraverso le reti etniche locali che provvedono a trovargli un alloggio e un lavoro. Ma queste reti non sono inserite in un sistema universale di servizi. E spesso il rischio è di entrare in collusione con le reti malavitose tradizionali e trovarsi costretto a vivere in uno stato di sottomissione in appartamenti sovraffollati e in lavori molto precari. Questo servizio di primo inserimento potrebbe essere organizzato da enti di terzo settore – con il coinvolgimento delle comunità straniere – qualora fosse co-progettato nei piani sociali territoriali. Si tratta di rendere fruibile tutto il patrimonio immobiliare disponibile e di realizzare nuova edilizia popolare. Attivando l’accesso alla formazione, si amplierebbero le opportunità per impieghi diversificati e retribuiti più dignitosamente».
Conoscere la lingua italiana è la condizione essenziale di un migrante per potersi inserire e integrare nella comunità che lo ospita: «Nella nostra regione è un servizio erogato dai Centri provinciali per l’istruzione degli adulti del Lazio (CPIA). La sede di Tor Pignattara è associata al CPIA 1 e si trova in Via Policastro 45, dove lavora anche ‘Asinitas’, associazione di promozione sociale nell’ambito dell’educazione, formazione e inclusione. La sede di Tor Pignattara ha un approccio innovativo nel sostegno alle donne straniere anche attraverso lo studio della lingua italiana e della costruzione di relazioni. Le iniziative sulle preparazioni culinarie con la partecipazione degli abitanti del quartiere sono, ad esempio, occasioni per esercitarsi nell’uso della nostra lingua costruendo relazioni sane». E le donne immigrate sono tra coloro che incontrano più difficoltà nel processo di integrazione: «Fino ad alcuni anni fa era più difficile incontrare per strada donne con il burqa. Oggi sono molte. Probabilmente la comunità bangladese, se da una parte inizia a ‘mettere radici’, a sviluppare ricchezza e opportunità, dall’altra sente l’esigenza di differenziarsi dall’altro e, come accade nei processi migratori, il Paese di approdo è anche il posto dove le persone e le famiglie strutturano le proprie peculiarità culturali e in alcuni casi le esasperano. Ma non lo sappiamo perché non ce ne occupiamo, non studiamo i processi».
Forse potrebbe trattarsi di un giro di vite nelle forme di segregazione femminile, indotto dai recenti processi di internazionalizzazione dei fondamentalismi islamici. Un sintomo di radicalizzazione che andrebbe osservato con attenzione: «Può darsi. Per questo motivo abbiamo provato, con associazioni e comitati del quartiere, a proporre un percorso di dialogo interreligioso, per poter coinvolgere le diverse confessioni e far venire alla luce problemi che altrimenti resterebbero nel chiuso delle singole comunità. Purtroppo le istituzioni pubbliche non si sono fatte carico di tale esigenza e non se n’è fatto niente, nonostante la disponibilità del mondo del terzo settore a promuovere iniziative sussidiarie. Mancano luoghi istituzionali di confronto».
Chiedo a Piero di illustrare brevemente le proposte delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato per l’inclusione degli immigrati nel nostro tessuto sociale: «Bisognerebbe costruire una filiera integrata di interventi che includa casa, istruzione, formazione civica e lavorativa, lavoro, sanità, integrazione sociale, arte, cultura e sport, welfare di comunità. Una filiera da collocare in un piano locale universale per non contrapporre poveri italiani e stranieri, con una attenzione particolare riservata ai minori. Un sistema ancorato a una visione complessiva di investimento nelle politiche culturali, educative, formative, occupazionali, sanitarie e sociali che miri a includere vulnerabilità migranti, delle seconde generazioni e native. Si tratta di accogliere comunità, non soltanto persone. Ci vogliono risorse pubbliche adeguate e continuative per sostenere iniziative che abbiano un respiro di medio-lunga durata, uscendo dalla logica dell’emergenza».
Andrebbe forse affrontato anche il tema delle condizioni economiche e di lavoro degli operatori: «Ritengo questo aspetto prioritario. Per implementare progetti di accoglienza e inclusione servono professionalità specifiche, operatori formati e retribuiti dignitosamente e una loro stabilizzazione. Sarebbe opportuno promuovere anche un registro per gli enti attuatori dei progetti che riguardano gli immigrati per la partecipazione a gare e bandi pubblici, andando sempre più verso una specializzazione e una continuità operativa».
