Russi e ucraini sul palco del San Carlo: la cultura regge ciò che sarà, restituiamole il suo tempo

Proteste avanti al San Carlo, la cultura perde il suo tempo etereo e si scontra con il ruvido presente. La fanciullesca volontà di chiedere la pace dopo il litigio viene mortificata. È giusto, hanno ragione: questo non è un litigio, è una guerra, è una tragedia umana, un impietoso spettacolo di morte con cui non si può scendere a compromessi, non si può fare finta di niente. È vero, la salomonica scelta può non bastare a chi è vittima, le colpe non sono pari ed è sbagliato pensare che lo si sia pensato, non si può banalizzare in un infantile “datevi la mano”. Ma non voleva essere questo il senso, non si può decontestualizzare dalla città il suo spirito, pieno dei suoi difetti evidenti e dai suoi slanci con cui, però, resta coerente alla propria vocazione di integrazione e contaminazione.

Bisognerebbe viverne l’animo dall’interno, entrare nelle case, interrogarle per capirle, attribuire loro i significati veri, quelli veraci, come i marchi delle pizze, non all’estero dove si condiscono di stereotipi e si dimenticano degli ingredienti. Mi viene in mente quando in un basso dei quartieri spagnoli presi un caffè, in un tempo in cui io neanche lo bevevo il caffè. Una donna anziana lo stava facendo e me lo impose, cortese, mentre io urlavo fuori alla sua finestra contro un motorino che impennando mi stava per investire. “È mio nipote, lasciate stare, quando torna a casa ci penso io. Mi chiamo Maria, come la Madonna, come la mamma di tutti e che tutti perdona, trasi, trasi, ti offro una pausa dal mondo”, si presentò lei, senza richiesta, con la sua litania, mista di rispetto e inconscio egocentrismo.

Mi prese per turista e non ebbi il coraggio di dirle che non lo ero, ero straniero in terra mia, ma Napoli mi accoglieva, lo fa del resto con tutti, da sempre, sta a chi è accolto scoprila prostituta o di buon cuore, identità che poi, in fin dei conti, possono anche coincidere. All’epoca non bevevo caffè, ma mi spugnavo di retorica, sono poi cambiato, adesso bevo caffè. In una casa senza niente, se non uno strascico di dignità che si percepiva in un odore di troppo pulito, rimasi perplesso nell’intravedere ‘Guerra e pace’ in tutta la sua mole. Commentai sorpreso e la vecchia ospite iniziò a raccontarmi di una sua zia maestra “che aveva studiato”, si era poi maritata con un preside, ma lo sposo l’aveva lasciata, facendole perdere equilibrio e stipendio. In quei sospiri rimaneva, non detto, il dubbio nei confronti di una cultura che non le era bastata per salvarsi da un destino che aveva già deciso. Quel tomo era la sua unica eredità e stava lì a ricordare le glorie di quando l’ascensore sociale si era timidamente mosso, per poi tornare bruscamente, subito, a quel terranno dove quella famiglia era condannata a stare, senza rimpianti.

Il libro giaceva sul pavimento, si reinventava zeppa e reggeva la credenza piena di piatti. I puristi avrebbero avuto un mancamento, ma i sognatori si sarebbero chiesti cosa può esserci di più puro della più evidente metafora della cultura indotta che regge la quotidianità? Esagero, il caffè resta un pericoloso eccitante. Ringrazio e vado, rifletto scanzonato su quante pause dal mondo così ci vorrebbero nelle proprie vite, pause anche da sé, dalle proprie viscerali passioni che alimentano le ambizioni, ma rischiano di accecare le emozioni. La rabbia può uccidere le buone intenzioni. È da un altro punto di vista che può cambiare la funzione, leggere o sorreggere, il libro è lo stesso, qualunque sia il messaggio, ciò che conta è lo spessore, in entrambi i casi. Ci vorrebbe una Maria costante che guarda dalla sua finestra e non giudica, eppure educa, non critica e accoglie, racconta e ascolta, Maria che si chiama come la mamma di tutti e che tutti perdona.

In verità, questa è solo una metafora di una Napoli genuina e incompresa, colpevole di aver suggerito la pace, perché non vede il senso della guerra, conscia che la rivoluzione parte dal basso, dai gesti di tutti, dal quotidiano dove la cultura intrattiene, forma e si pone a base delle credenze sbilenche. La cultura regge ciò che sarà non ciò che è, restituiamole il suo tempo, il presente lasciamolo alla realtà che ha già il suo teatro e non merita di varcare i palchi riservati all’arte.