Sala e Occhiuto, ora la politica non abdica più e sfida lo strapotere delle toghe

Milan's Mayor Giuseppe Sala addresses the City Council Monday, July 21, 2025, in Milan, northern Italy, as prosecutors are investigating more than 70 individuals, including Mayor Sala, over a sprawling corruption probe into the city's real estate industry. (AP Photo/Antonio Calanni) Associated Press / LaPresse Only italy and spain

“Tra qualche settimana saranno i calabresi a decidere il futuro della Calabria, non altri“. Si dimette, ma per ripresentarsi agli elettori. Quella di Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, indagato per corruzione, è un’operazione straordinariamente potente, che ribalta completamente lo schema di Tangentopoli: non più il passo di lato, l’esilio della politica, ma il ritorno al giudizio del voto come unica fonte di legittimazione. È una lontananza siderale dal sistema che dal ’92 faceva degli avvisi di garanzia una condanna, dei rinvii a giudizio un’esecuzione, e dava alle procure le chiavi della politica con il sostegno dei tribunali popolari.

A ben vedere, dello stesso segno è anche quel che è accaduto e accade a Milano, dove Beppe Sala rimane alla guida della metropoli, anche se colpito direttamente dall’indagine e accerchiato da dimissioni e arresti che vanno a mettere in discussione tutta la visione di città da 10 anni a questa parte. Il dato politico e storico risiede nella frase pronunciata da Sala in Consiglio comunale: “Le mie mani sono pulite”. Ovvero: la magistratura deve provare il contrario e, fino a quando non l’avrà fatto, la politica deve vincere su qualsiasi sospetto. Una rivendicazione che risuona con forza ancora maggiore nel suo recente discorso: “Tutto ciò che ho fatto nell’arco delle due sindacature, di cui ho avuto onere e onore, si è sempre esclusivamente basato sull’interesse dei cittadini e delle cittadine. Non esiste una singola azione che possa essere attribuita a mio vantaggio”.

Ma c’è di più. Occhiuto, uomo di Forza Italia in una Regione delicatissima; Sala, uomo sostenuto dal Pd in una città guida del Paese: nella loro resistenza trovano il sostegno trasversale dei partiti garantisti, e si segna con evidenza clamorosa il solco tra questi e i partiti manettari per genetica e per convenienza. Trent’anni dopo Tangentopoli, quando le aule dei tribunali sostituirono di fatto il Parlamento nel decidere le sorti del Paese, l’Italia assiste forse a un cambio di paradigma. “Allucinante apprendere da un giornale di essere indagato”, aveva dichiarato il sindaco di Milano, mostrando che invece i metodi degli inquisitori non sono mai cambiati. E ancora, nel suo discorso al Consiglio: “Ma allora mi chiedo: essendo la magistratura l’unico organo preposto alla comunicazione di questi atti, perché questa informazione è stata divulgata ai media? E chiedo a voi, colleghi politici, se ciò continui a starvi bene”. La stessa premier Giorgia Meloni ha chiarito la linea: ” La mia posizione è quella che ho sempre su questi casi: penso che la magistratura debba fare il suo corso. Io non sono mai stata convinta che un avviso di garanzia porti l’automatismo delle dimissioni”.

“Io penso che in un Paese civile nessuno debba dimettersi perché riceve un avviso di garanzia”, ha affermato ora Occhiuto. Aggiungendo una critica feroce a chi strumentalizza le inchieste: “Ce l’ho con questi che utilizzano l’inchiesta giudiziaria come una clava per indebolire o per uccidere politicamente il presidente della Regione. Non sarà così”. Persino nelle opposizioni calabresi emerge un approccio equilibrato. Antonio Lo Schiavo (Misto) ha osservato: “No a un garantismo intermittente, il garantismo vale per tutti, anche per l’altra parte politica”. Domenico Bevacqua, capogruppo del Pd in Consiglio regionale calabrese, ha sottolineato: “Questo dibattito conferma la serietà dell’opposizione, il suo equilibrio e la sua saggezza, il rispetto verso i calabresi, e non abbiamo voluto strumentalizzare la vicenda”.

Il cambio è evidente anche nella gestione mediatica delle vicende. La politica indagata parla, cerca la telecamera, non cade nel tranello di assecondare il sospetto con il silenzio. Sala non si nasconde: “Sono più che mai motivato a fare il mio dovere fino in fondo e a proseguire nel mio incarico”. E lancia un monito: “Ricordo a chi approfitta, politicamente, di situazioni come quella che la mia amministrazione sta vivendo: oggi a me, domani a te”. “Il vecchio registro della vergogna, sarebbe il suicidio di una politica che sta già facendo una gran fatica – dice un parlamentare milanese di ritorno da Roma – Qualcuno crede ancora che convenga fare i girotondi o tirar le monetine? Il Paese si è stancato di giustizialismo”.

Sarebbe questa la vera riforma della giustizia: la politica che riprende saldamente il suo ruolo costituzionale, lasciando alla giustizia il suo perimetro naturale. Paradossalmente, questa distinzione dei ruoli restituisce credibilità a entrambe le istituzioni: una magistratura che indaga senza condizionare il governo del Paese, una politica che risponde del suo operato agli elettori, non ai pm. Il messaggio è chiaro: la politica non abdica più. E forse, proprio in questa ritrovata dignità del ruolo politico sta la vera garanzia per una democrazia compiuta, dove ogni potere esercita le sue funzioni.