San Francesco, il santo che si fece piccolo e divenne grandissimo

“Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore…” . Non ci rendiamo conto fino a che punto san Francesco – dal cui Cantico delle creature (che inaugura la letteratura italiana) abbiamo citato il verso – sia il santo della nostra epoca (come ha felicemente intuito papa Bergoglio). Benché il suo messaggio pauperistico contenga una verità inattuale, per noi quasi disturbante (si spoglia davanti a tutti e morirà nudo), san Francesco è pure attualissimo, un “democratico estremamente genuino”, come osservò Chesterton: “Non identificava gli alberi con il bosco, non voleva identificare le persone con la folla, per lui un individuo era sempre un individuo e non spariva nella folla”.

E ancora: non c’era mai nessuno, fosse il papa o un accattone, il sultano di Siria o i predoni che sbucano dal bosco “che guardando in quegli ardenti occhi scuri non abbia avuto la certezza che Francesco provava un sincero interesse per lui in quanto individuo”. Del resto anche nel Paradiso dantesco ogni beato ha la propria fisionomia inconfondibile, unica, individuale. Al Salone del libro è stato presentato un libretto prezioso su san Francesco a cura della rivista “Frate indovino”: Cantico delle creature. Dodici letture. Tra i molti contributi cito quelli di Moni Ovadia, Michele Serra, Maurizio De Giovanni, Daniele Mencarelli, etc. oltre a quelli di teologi, astrofisici, drammaturghi, piloti d’aereo, Confesso un lieve imbarazzo nello scoprire che il mio intervento si colloca accanto a quello di papa Francesco (“Dio è umile”), il quale – molto opportunamente – va subito al cuore della questione: san Francesco testimonia l’umiltà stessa di Dio che “per noi si è fatto piccolo”. Già, ma che significa davvero farsi piccolo? Torniamo a Dante e al canto XI del Paradiso.

Dante ha la incredibile audacia di mettere san Francesco al centro del cielo del Sole, cioè dei grandi sapienti (Alberto Magno, san Tommaso, Sigieri...), proprio lui, il folle, il giullare di Dio, il poverello di Assisi! Ora il santo si fece “pusillo” (piccolo) per limitare se stesso, per fare posto agli altri e per poterli amare. Più ridimensiono il mio io più faccio essere un mondo affollato di creature. In Dante il bene è precisamente dare realtà a cose e persone (una definizione che troviamo nei Quaderni di Simone Weil, che nella chiesa di Assisi ebbe una esperienza mistica). Agire bene non per obbedire a un precetto ma per far esistere di più il mondo intorno a noi, e si tratta di un mondo strapieno di esseri viventi.

L’Inferno dantesco è tutto sotto l’egida di Aristotele, dunque il valore più alto per il mondo pagano è la giustizia. Ma già il Purgatorio si ispira all’etica cristiana, alle Beatitudini del Vangelo: alla giustizia – che può anche avere un volto duro, intransigente – si contrappone l’amore (irragionevole, smisurato, in qualche caso anche “ingiusto”), la carità, il perdono incondizionato di cui parla san Francesco, in ciò davvero vicino ad una imitatio Christi: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore…”. La figura di San Francesco è stata fondamentale per Dante e per Giotto, artisti coetanei, nati entrambi a Firenze, inventori di un realismo potente e allegorico. E, a proposito di realismo, il “Cantico delle creature” ci trasmette subito una idea tangibile della percezione della realtà nel Medioevo. Nonostante le guerre e le pestilenze, nonostante la mortalità infantile altissima, etc. si riteneva che la vita fosse benedetta.

Una cosa difficile da capire per noi moderni. Dante è convinto di abitare un cosmo armonico e stabile, creato per amore (l’amore muove il sole e le altre stelle). E l’amore naturale è “senza errore”, come ci ricorda Virgilio nel XVII del Purgatorio: poi si corrompe e viene deviato quando diventa smodato o troppo flebile o rivolto a oggetti sbagliati. In questo senso non possiamo attualizzare Dante oltre il dovuto: resta un uomo del Medioevo, immerso nella metafisica aristotelico-tomista, con le sue granitiche certezze. Eppure Dio è presentato, all’inizio del Paradiso, come luce, dunque non come potenza. Ha creato il mondo “non per aver a sé di bene acquisto” ma – con un atto di amore gratuito – perché il suo splendore risplendesse nelle creature. Si compiace della nostra esistenza stessa, e della nostra libertà. Dunque, Dante al contrario di san Francesco non perdona, e anzi giudica (severamente) e condanna. Ma la sua poesia accoglie la realtà intera e perfino un personaggio come il conte Ugolino possiede una propria grandezza, benché la sua esistenza abbia deviato da un corso naturale.

Se un lettore attuale legge il “Cantico delle creature” e il canto XI del Paradiso dovrebbe anzitutto chiedersi: e io? Mi sono mai fatto pusillo? Mi sono mai “umiliato”, sia pure, come avviene nel santo di Assisi, gioiosamente e regalmente (Dante traduce l’”umilmente” di san Bonaventura in “regalmente”). L’autore della Commedia infatti rivolge un appello a ogni lettore, non ha scritto il suo poema per gli studiosi. Non voglio sottrarmi a questo imperativo. Mi sono mai fatto piccolo? Ora, credo che verosimilmente il mio io, come peraltro quello di intellettuali, scrittori, letterati, etc. sia un io ipertrofico, smisurato, sempre alla ansiosa ricerca di riconoscimento pubblico e di visibilità. Però mi ritrovo ad avere una natura incline alla distrazione, in forme quasi patologiche.

In questo caso un difetto può coincidere con una virtù. Mi salva la distrazione! A volte accade che mi distraggo perfino da me stesso – perdendo tempo, inseguendo oziosamente l’occasione -, dal mio io ipertrofico. Ma potrebbe trattarsi di un ragionamento autoconsolatorio. Il messaggio di San Francesco, al di là dei nostri sforzi per raggiungerne la impossibile radicalità, ci mostra in modo chiaro che la magnanimità – di cui già parlava Aristotele nell’Etica Nicomachea – non significa essere grandi uomini (e cioè conquistatori, imperatori, condottieri, leader politici) ma uomini dal grande animo, felici per il solo fatto che esista un mondo affollato di creature.