“Saprò dire il tuo nome – Trenta poesie e una ricerca” (edizioni Industria e Letteratura) è il sorprendente libro di Massimiliano Coccia, giovane poeta romano (nonché giornalista che ha scritto per varie testate, L’Espresso, L’Unità, Linkiesta), sorprendente per la qualità dei versi, così nudi e personali nella loro asciutta semplicità.
«La calca del sole/ che desolante/ inonda quello che resta di tutta la città./ Si attende la sera per togliere un giorno/ al calendario/ nella mistica dolenza/ degli anni che passano/ con truce/ noncuranza». Qui c’è molto della poetica dell’autore, la città innanzitutto, che è la sua Roma (proprio “sua”, in un legame commosso), il tempo che passa «con truce noncuranza», grande ossimoro metafora di indicibilità. È una Roma amata e amara, quella di Coccia, seduto al Verano, lo storico cimitero, l’approdo inevitabile dei romani, scrigno di storie lontane:
«Volevo morire e dicevo a tutti/ che volevo solo vivere/ parlavo dell’estate/ seduto sul Verano».
E ancora:
«I vivi,/ i morti,/ e Roma che è sempre un cimitero».
Nella città dove il poeta cammina, che egli ama e teme come Baudelaire con Parigi, nella fatica del vivere che s’indovina, ecco che spesso spunta l’amore, come se fosse «un’amnistia», ci deve essere una “lei” che raccoglie tutto il dolore di lui mentre tutto intorno scorre.
