Dice Shakespeare nell’Amleto: «Ci sono più cose in cielo e sulla terra, Orazio, di quante la tua filosofia possa immaginarne. Vero, ma in cielo molte molte di più. È sempre più raro trovare qui sulla terra qualcosa che possa meravigliarci, o ancora meglio, indurci a cambiare radicalmente la nostra visione del mondo. Invece, il cielo, inteso come la porzione di universo a noi visibile, non finisce mai di mostrare nuovi volti stupefacenti e imprevisti. E, spesso, dal restare stupefatti, al pensare che qualcuno ci abbia organizzato la sorpresa, il passo è breve. Dallo spazio remoto ci arrivano segnali con caratteristiche di regolarità che non ci si aspettava? Eccolo lì… È l’alieno che cerca di mettersi in contatto con noi, che altro?
Non è la prima volta che ci imbattiamo in casi simili. Nel 1967 furono scoperte le Pulsar. Non si aveva idea di che cosa potessero essere, ma apparivano come sorgenti di segnali a impulsi – da cui il nome che fu attribuito – come il battito di un gigantesco cuore cosmico. Era il grande cuore dei nostri fratelli alieni che volevano fare amicizia? All’inizio qualcuno lo credette davvero. Ma qualcun altro, cinico e disincantato, ricordò il criterio di Occam, che si deve applicare ogni qualvolta non si sa che pesci pigliare: tutte le spiegazioni che siano in accordo con le evidenze sperimentali sono legittime ma, tra queste, bisogna preferire quella che implica il minor numero di assunzioni arbitrarie.
La mela cade al suolo, la luna orbita intorno alla terra e la terra intorno al sole? Si può pensare che il dio della frutta provveda a depositare la mela, la candida dea della luna si occupi dell’orbita dei satelliti e la madre Gea sostenga lo sforzo della terra intorno al sole. Oppure si può credere a Newton e alla sua legge di gravitazione universale che, con un’unica formula, descrive perfettamente tutti questi movimenti. Se tu dici: «Il segnale è il battito del grande cuore cosmico dei fratelli alieni», poi mi devi spiegare come è fatto questo grande cuore, da dove prende l’energia per lanciare segnali a distanze siderali e come mai i fratelli alieni non siano inceneriti dal flusso di energia che prorompe dal cuore cosmico. Mentre invece, se io ti dico: «Secondo me è un corpo celeste che ruota su se stesso, come fa la quasi totalità dei corpi celesti, sole e pianeti compresi, quindi niente di strano. Emette un segnale costante (quindi non devo ipotizzare meccanismi stravaganti di accensione e spegnimento) ma, siccome gira come un faro, lo vediamo come fanno le navi, a lampi».
In questo caso, non devo dare tante altre giustificazioni astruse e fantasiose. Gli amici degli alieni resteranno delusi, ma Guglielmo di Occam avrà avuto la sua giusta soddisfazione. Stavolta però la situazione è un po’ diversa da quella del 1967. I segnali captati hanno avuto una sequenza molto singolare. Non erano semplici lampi a intervalli regolari, come quelli del faro. Per 13 mesi, a partire dal settembre 2018, scienziati canadesi che scrutano il cielo per stabilire come è distribuito l’elemento più semplice e leggero dell’universo, l’idrogeno -di cui è formato in gran parte anche il nostro sole- si sono imbattuti in segnali molto particolari. La sequenza durava sedici giorni con questo schema: i primi quattro giorni, un segnale all’ora; i rimanenti dodici giorni, silenzio assoluto. Poi di nuovo l’oggetto misterioso, distante mezzo miliardo di anni luce, mandava per altri quattro giorni i suoi “segnali orari”, per restare quindi muto nei dodici giorni successivi. E così via. Alla fine del tredicesimo mese, i segnali, così come erano comparsi, sono svaniti.
Qui non si tratta più di supporre un meccanismo semplice come quello del faro. Il faro va bene per i primi quattro giorni, ma come si giustifica la scomparsa e la riapparizione dopo dodici giorni? E la scomparsa (forse) definitiva nell’ottobre 2019? Ciò che di solito fanno gli scienziati, quando hanno un modello che funziona bene -come è quello del faro per le Pulsar- è cercare di vedere se, con aggiunte e correzioni, si possa continuare ad applicare anche per spiegare fenomeni più complessi di quelli per cui era stato originariamente concepito. In altri termini, un faro modificato a dovere, potrebbe dare conto di queste curiose osservazioni? Seguitemi e vi farò vedere nelle prossime righe come lavora uno scienziato.
Prima ipotesi, nel periodo di dodici giorni il faro non si è davvero spento, per poi riaccendersi allo scadere del dodicesimo giorno. Sarebbe complicato giustificare un meccanismo del genere. È più probabile che, semplicemente, venisse oscurato. Non è difficile immaginarlo. Pensiamo di nuovo al faro di marina. Se, per qualche fenomeno atmosferico particolare, calasse una fitta nebbia ogni sedici giorni, che permanesse per i successivi dodici giorni, ecco che tutto coinciderebbe: quattro giorni di lampi visibili e dodici di buio pesto, trascorsi i quali, la nebbia si dirada e i lampi ricompaiono. Sembra avere senso questa ipotesi…ma con due gravi limitazioni. La prima è che segnali cosmici di questo genere tendono a passare attraverso qualunque nebbia, terrestre o galattica che sia. La seconda è che nello spazio non cala la nebbia, perché non ci sono condizioni atmosferiche variabili. Buttiamo tutto? No, non siamo precipitosi.
L’idea era promettente, ragioniamoci un po’ su. Servono delle modifiche. Potremmo salvare il modello del faro oscurato, sostituendo alla nebbia una grande massa che si interpone tra il faro e la nave. Ad esempio, un transatlantico, che fa ombra e impedisce la vista del faro. Se il transatlantico prestasse servizio regolare lungo una tratta davanti al faro, e procedendo molto lentamente, le cose tornerebbero! Potreste obiettare: ma nello spazio non ci sono transatlantici, proprio come non c’è nebbia! Vero, ma ci sono oggetti ancora più grandi dei transatlantici. Ad esempio, dalla terra, di solito si osserva la luce del sole nel cielo ma, se la luna si frappone, siamo in condizioni di eclissi e la luce scompare. Non si è mica spento il sole, siamo noi, dal nostro punto di osservazione, che non lo vediamo più! Allo stesso modo, se l’oggetto che emetteva i segnali osservati dal gruppo canadese fosse stato parte di un sistema stellare complesso, sarebbe possibile disegnare una qualche geometria che dia conto dell’oscuramento di dodici giorni.
Va bene, concesso, ma questo non spiega perché dall’ottobre 2019 non lo vediamo più. Il motivo, forse, è lo stesso per cui abbiamo iniziato a vederlo nel 2018… Erano gli ultimi sussulti di una stella agonizzante: perché il segnale potesse arrivare fino a noi, a mezzo miliardo di anni luce di distanza, ha dovuto spremersi al limite delle sue facoltà. E quando una stella sta per morire, spesso comincia a splendere come ha mai fatto prima. In fondo, anche qui sulla Terra succede in tante occasioni… Dopo lunghi ragionamenti, non mi dispiace concludere con una metafora. Malinconica sì, ma anche istruttiva.
