In una puntata di Piazzapulita di qualche tempo fa è andato in onda un servizio sull’inquinamento a Taranto: un bambino che avrà avuto sì e no quattro anni, malato di leucemia, ha detto all’inviato «io ho il sangue birichino». Il dolore imprevisto che mi ha preso allo stomaco (la mia testa che già andava in casa di quel bambino, vedeva lo sforzo dei genitori per spiegargli il suo male e la sua fiducia mentre porgeva il braccio alla flebo) era dovuto alla completa assenza, in quella frase, di retorica. Ci pensiamo poco, di solito, a come la retorica funziona, eppure bisognerebbe rifletterci più spesso. La retorica ha una funzione positiva quando si tratta di convincere molte persone e non c’è tempo, o modo, di fare appello alla loro razionalità; l’apologo di Menenio Agrippa convinse i plebei a scendere dall’Aventino e ad accordarsi coi patrizi, ottenendo qualche legge in loro favore. Così, spesso, per la retorica sindacale.
La retorica, si dice, non parla al cervello ma al cuore, o ancora più giù; la cosa di cui però non si tiene conto è che la cattiva retorica, quella ripetitiva e/o roboante, ottunde e inquina anche il cuore. Se invece del «sangue birichino» avessi ascoltato il politico di turno pronunciare frasi come «la vita di un solo bambino conta più di tutta l’Ilva messa insieme», o «chi salva un bambino salva tutto il mondo», al posto dell’imprevisto dolore avrei provato soltanto un po’ di noia.
La cattiva retorica ci trasporta in un’area di sentimenti obbligati e collettivi, suscitando individualistici pensieri di rigetto. Se leggo che i due agenti morti in una sparatoria a Trieste nell’ottobre scorso (un dominicano con problemi mentali era riuscito a disarmarli mentre lo accompagnavano in bagno) sono «figli delle stelle», sento svanire la commozione vera che dovrei dirigere alle loro singole persone, alle loro famiglie, ed entro in una facile nebbiolina sentimentale e canzonettistica in cui la loro verità si perde. La retorica è utile quando innalza un eroe a mito nazionale o di classe, ma gli eroi che durano meno di una settimana sono fantasmi mediatici che servono solo a tacitare le coscienze (o, talvolta, a commuovere i giornalisti).
La cattiva retorica attinge al serbatoio dei luoghi comuni, che per definizione sono gli argomenti più diffusi e richiedono minor sforzo intellettuale per essere digeriti; per di più, è quasi sempre una storia raccontata a metà. Se per ottenere un consenso elettorale grido che il Partito Democratico a Bibbiano «rubava i bambini», quella storia complicata non la racconto nemmeno per un decimo; ma intanto faccio cadere su quel partito un’ombra insidiosa che si ricollega allo stereotipo dei «rom che rubano i bambini», con tutte le ulteriori perfide armoniche che da questo accostamento possono diramarsi. L’inconscio sociale è pieno di trappole e di effetti-eco che talvolta possono essere controproducenti per chi li mette in moto.
Nell’inconscio sociale stanno rintanati degli archetipi a cui la retorica può attingere, ma che si attivano anche se nessuno va a stuzzicarli. Greta Thunberg (che è già entrata nel diciottesimo anno di età) è però catalogata come “piccola santa” o “piccola strega” – senza che si discuta seriamente su quanto le sue conoscenze scientifiche, all’interno di una famiglia peculiare come la sua (profondamente attraversata da sociopatie di vario genere, imbevuta di rigorismo protestante), siano fondate, e quanta effettiva forza espansiva sui giovani possa avere la sua ribellione così radicalmente rivoluzionaria. La retorica è una scorciatoia, abbrevia la strada per arrivare al giudizio e illude che i rimedi siano a portata di mano.
Per questo è così di casa oggi su Twitter e sui media di pronto intervento; congiunge in un’unica marmellata livelli logici differenti e clichés di diversa origine, andando incontro talvolta a cortocircuiti e buffi incidenti di percorso: vedi la frettolosa retromarcia di Salvini sulla Nutella dopo essersi accorto, col suo staff, che l’orgoglio patriottardo del “prima i prodotti italiani” era andato a impattare contro un mito più forte: di piacere morbido, lecito, indiscutibile e familiare. Semplificare i problemi complicati per raccontarli alle masse è lecito, ma le masse non meritano che dietro ogni semplificazione si nasconda un’idea già fritta e rifritta, o una banalità, o una poeticità melensa.
«Tutta l’Africa in Italia non ci sta»; «in questo gommone (di migranti) sono contenute le speranze dell’Europa». Due frasi entrambe retoriche, una in un senso e una nell’altro, che trascurano le complessità di un’Africa colonizzata dai cinesi tanto quanto le caratteristiche personali degli ospiti di quel gommone; retorica di destra e di sinistra si rimpallano a specchio, e ormai comincia a diventare retorico anche il richiamo di chi pretende di abolire la retorica.
La cattiva retorica non si potrà mai abolire, ma si potrebbe attenuare con l’istruzione (per esempio, con lezioni di retorica nelle scuole). Buonismo e cattivismo sono campi retorici complementari, in cui i partigiani dell’uno e dell’altro campo si accusano a vicenda di essere «quelli che davvero fanno la retorica peggiore». Si rischia lo stallo del pensiero, con conseguente voglia di qualcuno deciso che agisca. («Bisogna proibire la cannabis terapeutica», «Legalizziamo tutte le droghe» – «Intanto allora mettiamo in galera tutti gli spacciatori, senza troppe distinzioni, e buttiamo la chiave»).
Ma le più scivolose sono le retoriche bipartisan. Lo «sviluppo sostenibile», la «fine della povertà e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (proprio adesso che la gente si sta abituando ad avere sempre più servi, come quelli che ti portano la pizza a domicilio), «l’astenersi da ogni azione di guerra». Proviamo a dire in pubblico alcune frasi-campione: «le donne sono sempre meglio dei maschi», «tra amore e violenza non c’è nessun rapporto», «il nostro è il più bel Paese del mondo» – se l’applauso arriva subito, in quelle affermazioni c’è qualcosa che non va.
