Se la malattia mentale diventa uno strumento di (in)giustizia

Che l’organizzazione della prevenzione e cura della malattia mentale costituisca da secoli campo d’indagine privilegiato dei rapporti tra psichiatria e potere, che sia oggetto di studi specifici e inquietanti a partire dagli scritti di Foucault, e che psichiatria e processo giudiziario si annodino secondo disegni e scopi spesso opachi, bene o male lo sappiamo ma, temo, non ne valutiamo le conseguenze col dovuto rigore. Ci aiuta in questa ponderazione il nuovo libro di Corrado De Rosa, scrittore e psichiatra salernitano: Italian Psycho (Minimum Fax, pp. 301, euro 18) è presa d’atto, osservazione allo specchio della storia politica e giudiziaria e sferzante contatto con una lacerazione che turba e infastidisce: lo sconfinamento della malattia mentale in terreni contigui ma differenti, in ossequio a talvolta plateali strumentalizzazioni. Da un lato, infatti, la «malattia mentale è un potente strumento per il raggiungimento dell’impunità e la storia è piena di finti pazzi, con esempi di manipolazione perversa della medicina». D’altra parte, la «follia funziona da ansiolitico sociale, placa le angosce quotidiane, crea un falso sentimento di sicurezza».

Il ritmo incalzante, l’asciuttezza di sguardo di De Rosa ci accompagna, senza lasciare scampo dalla prima pagina all’ultima in quello che l’autore con chiarezza e coraggio definisce «il racconto dell’uso sovversivo della malattia mentale e della diversità nella storia recente d’Italia», un racconto in cui i protagonisti «sono accomunati dall’essere stati vittime o carnefici di questa strumentalizzazione». Ricca e avvincente la ricostruzione storica dell’uso della follia in uno dei processi a Pier Paolo Pasolini; spiazzante l’opera di delegittimazione delle lettere di Aldo Moro nei giorni del sequestro; disturbanti le pagine dedicate a Diana Blefari Melazzi, coinvolta negli omicidi di Marco Biagi e Massimo D’Antona.

Qui vorrei soffermarmi su uno dei capitoli forse meglio riusciti di questo racconto avvincente, dove le competenze del professionista nutrono la visione del narratore: Making Mad, dedicato alla parabola manicomiale-giudiziaria del boss Michele Senese. In quota Moccia, Senese è uno che ascende rapidamente nei gangli decisionali della strategia di guerra da muovere a Raffaele Cutolo, capo e della Nuova camorra organizzata. Con l’ingresso a Roma, avviene il salto di qualità e, alla fine degli anni ’80, Senese «unifica interessi per collegare i gruppi». Egli «è al centro delle dinamiche criminali della capitale e ha quasi il pieno controllo dello spaccio». Parallela a questa ascesi folgorante sul monte del crimine organizzato si affina la messinscena della malattia mentale e quella che è la vera follia nel percorso carcerario di Senese, cioè l’articolazione sempre più audace delle diagnosi che lo riguardano: schizofrenia paranoide, insufficienza mentale e disturbo della mentalità antisociale. Ospite di pressoché tutti i manicomi giudiziari italiani, soltanto tra il 2011 e il 2012 i periti della Corte d’appello di Roma accerteranno che «i sintomi che ha declamato per trent’anni sanno di posticcio». E al lettore resta, come alla fine di ogni ritratto di De Rosa, un sentimento solido e fecondo di disorientamento: effettiva chiave di accesso, forgiata dalla letteratura (come L’alienista che apre il romanzo indica da subito), alla verità del processo e della sanità mentale.