Quando la Corona britannica perse le colonie americane, nacque la canzoncina “Humpty Dumpty” che tutti i bambini di lingua inglese cantano, benché si sia perso il senso storico: Humpty Dumpty era il nomignolo che i sudditi inglesi avevano affibbiato a Re Giorgio, un monarca grassoccio disegnato come un uovo sodo con la corona, che un brutto giorno cadde dal muretto su cui era seduto e si fracassò al suolo. Il colpo fu irreparabile – recita la strofetta– perché malgrado lo sforzo della fanteria e della cavalleria nessuno riuscì più a rimettere insieme i cocci del Re che aveva perso gli Stati Uniti d’America. In un secolo, la ricchezza americana superò quella di tutte le altre e Londra dovette adattarsi al secondo posto.

Adesso, dopo il trauma delle parole forti e delle ancora più forti tariffe imposte da Trump (e gli insulti di JD Vance), tutto il mondo, anche di lingua inglese, comincia a chiedersi se non sia arrivato il momento della rivincita di Humpty Dumpty insieme alla nuova Europa che dà segni di crescita disuguale ma impaziente e che dimostra di essere sempre più interessante – più degli Stati Uniti – come la nuova e futura “land of opporunities” visto che le economie emergenti in modo sempre più deciso, come nel caso dell’Indonesia, vedono che l’Unione europea è un valore affidabile e con una moneta stabilmente sopra il dollaro. In crescita da quando anche il Regno Unito cerca di superare lo shock della Brexit ed entra in amicale alleanza e concorrenza con una Germania che il mondo aveva dimenticato e con la Francia. Sicché avvertono una novità che nasce con la questione dell’Ucraina invasa da una Russia imperiale e imperialista che ripropone la stessa guerra fredda che l’occidente ha dovuto fronteggiare per mezzo secolo.

Su che cosa fare, come farlo e con quali costi è il tema centrale dei nostri anni su cui si sta delineando il continente europeo affamato sia di identità e che di unione. Nessuno può dire oggi come finirà e quali saranno gli sviluppi a breve ma è un dato di fatto che la salita di Trump a White House conferma la forza di un elettorato americano che non ne vuole sapere di guerre altrui come accadde negli anni ’40 quando Franklin Roosevelt era del tutto insensibile alle accorate richieste del primo ministro inglese Winston Churchill affinché gli Stati Uniti entrassero in guerra contro la Germania nazista. Neanche dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour Roosevelt dichiarò guerra Hitler, il quale lo sollevò dall’imbarazzo formalizzando lo stato delle cose.

Da allora l’opinione pubblica americana, proprio quella che già due volte a eletto Donald Trump, stanca di Vietnam ed esausta di Iraq ed Afghanistan punta i piedi e non vuole saperne di relazioni internazionali che portano il contadino del Vermont a finire in un cimitero polacco. E le ultime mosse militari di Trump hanno profondamente allarmato questo elettorato che si dichiara nemico dei Neocon e di tutti gli interventisti nelle guerre altrui. Questo sentimento deve essere talvolta ricordato per calmare lo stupore di noi europei per le scelte dell’elettorato che vuole un’America ricca, potente, industriosa, indifferente alle disgrazie altrui e barricata nel suo quadrilatero di due oceani e due paesi come il Canada e il Messico con cui non c’è pericolo reale di conflitto.

Trump oggi si sente minacciato dalle sue repulsioni che lo hanno portato ad interventi fulminei ma sgraditi all’opinione pubblica come quello sull’Iran, e la ripresa del sostegno militare all’Ucraina e per l’Europa un sentimento se così si può chiamare riluttante. Ieri il New York Times notava che perfino Giorgia Meloni, data per trumpiana divisa fra Washington e Bruxelles, alla fine dei conti e con i dovuti garbi, sceglie Bruxelles dove c’è l’intesa con Ursula von der Leyen che ha Die Zeit ha detto: “Abbiamo bisogno di una Unione europea totalmente nuova pronta ad affrontare il mondo esterno pericoloso e selvaggio per ridisegnarlo prima che ci ridisegni lui”.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.