Il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri torna ciclicamente, come un pendolo che oscilla tra riforma e conservazione. Ma è davvero una battaglia “di destra”? Nel 2019, in occasione delle primarie del Partito Democratico, l’attuale responsabile giustizia Debora Serracchiani – insieme a figure di peso come Graziano Delrio, Matteo Orfini, Vincenzo De Luca e Lorenzo Guerini – sottoscriveva la mozione a sostegno di Maurizio Martina.
In quel documento si affermava chiaramente: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Una posizione netta, senza giri di parole – Oggi, a distanza di appena sei anni, la linea sembra mutata. Che cosa è successo nel frattempo? L’interrogativo non è banale, perché la separazione delle carriere non è una suggestione di scuola leghista o berlusconiana. Anzi, ha radici ben piantate nel pensiero di personalità insospettabili. Giovanni Falcone, nel 1989, scriveva: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti”. Per il magistrato simbolo della lotta alla mafia non si trattava di smantellare l’indipendenza della magistratura, bensì di rafforzarla.
Nel 2004, Giuliano Pisapia – allora deputato di Rifondazione comunista, avvocato e giurista – presentava una proposta di legge che affrontava lo stesso tema con parole inequivocabili: “Riconoscere la sostanziale differenza tra la funzione requirente e quella giudicante equivale – diversamente da quanto alcuni temono – a garantire meglio la magistratura, la sua indipendenza e a prevenire il pericolo che ne sia inficiata la credibilità”. Allora perché ogni volta che si pronuncia questa espressione scatta l’accusa di “attacco alla magistratura” o di “deriva autoritaria”? Forse perché la storia politica recente ha legato la battaglia soprattutto al centrodestra, in particolare ai governi guidati da Silvio Berlusconi, che aveva più di un conto aperto con le aule di giustizia. Da lì la semplificazione: se ne parla a destra, allora deve essere un progetto di destra. Ma la realtà è diversa. La riflessione sulla terzietà del giudice, sul ruolo del pubblico ministero e sull’equilibrio dei poteri attraversa tutto l’arco politico, almeno quello che non teme di sporcarsi le mani con riforme di sistema. Chi difende lo status quo sostiene che la separazione indebolirebbe l’azione penale e aprirebbe la strada a un controllo politico dei pubblici ministeri. Ma il vero rischio per la credibilità della giustizia e’ proprio nella commistione attuale, dove giudici e pm appartengono allo stesso corpo e possono passare da una funzione all’altra nel corso della carriera.
È difficile spiegare ai cittadini – osservano i fautori della riforma – che chi oggi accusa domani può giudicare, e viceversa. Certo, la destra l’ha spesso cavalcata, ma lo hanno fatto anche pezzi importanti della sinistra riformista, convinti che si tratti di un passaggio necessario per rafforzare le garanzie. Serracchiani e compagni lo scrivevano nel 2019; Falcone lo diceva trent’anni fa; Pisapia lo ha tradotto in un atto parlamentare vent’anni or sono. La domanda da porsi, semmai, è un’altra: perché il centrosinistra ha cambiato passo? Forse per il timore di consegnare una vittoria simbolica alla destra, o perché il dialogo con l’Associazione nazionale magistrati è sempre stato complicato. Oppure perché, in un clima politico avvelenato, ogni riforma della giustizia rischia di essere letta come una manovra contro qualcuno. La separazione delle carriere appartiene a chiunque ritenga che la giustizia debba essere percepita come terza e imparziale: una chiara e semplice battaglia riformista.
