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Separazione delle carriere, se l’ultimo miglio è verde
In questi anni di dibattito e dialoghi sul tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri (ne son passati quasi nove dalla iniziativa della raccolta firme dell’Unione delle Camere Penali Italiane del 2017 che ha aperto le danze) ne abbiamo sentite molte, specie da parte di coloro che hanno osteggiato e osteggiano la riforma costituzionale. Si è trattato sin qui, con puntualità scientifica, di argomenti vacui; e tali dimostratisi al minimo approfondimento. Come in un biglietto sfortunato, insomma, grattando la superficie è venuto fuori rapidamente, ad esempio, che la cultura unitaria della giurisdizione è una sorta di ectoplasma concettuale; che il pubblico ministero sottoposto all’esecutivo è un’invenzione in nulla rispondente al testo della riforma; che la riforma Castelli del 2005 ha separato le funzioni e ciò, dunque, non ha nulla a che spartire con le sane ambizioni della novella che sarà sottoposta fra qualche mese al giudizio collettivo attraverso il referendum popolare.
Le riflessioni
Si è trattato però di argomenti precisi, declinati con convinzione e, soprattutto, con trasparenza, ai quali con altrettanta trasparenza si è provato a contraddire. Quello che non era ancora accaduto, invece, era di leggere composizioni all’apparenza complesse che, nel dichiarato intento di instradare il cittadino a votare contro la riforma in arrivo, mettessero insieme riflessioni (e nemmeno importa se tutte completamente aderenti ai testi normativi o all’andamento delle cose) che non solo insieme non stanno, ma che nemmeno appaiono funzionali agli obiettivi dichiarati. E tali sono gli scritti – di cui vi dà ottimamente conto la quarta Pagina – dei professori Verde e Finocchiaro, comparsi, dato nient’affatto secondario, sulla Guida al Diritto del Sole 24 Ore, che dirvi quanto sia importante nel panorama editoriale dei giuristi è del tutto superfluo. Le sollecitazioni che i due testi offrono (tre, per la precisione, giacché Verde indulge al bis) non solo per il contenuto, ma persino per il piglio di autorevolezza di cui appaiono rivestite, imporrebbero molto più spazio delle poche battute di questa riflessione. Ma occorre semplificare e, come talvolta accade, ciò che manca lumeggia l’idea di fondo meglio di ciò che c’è.
Manca tutto
E qui manca tutto. A cominciare dal confronto con le ragioni della riforma; quelle profonde, autentiche, che possono non piacere, ma che sono limpide e si riassumono, come tutte le cose sicure, in poche parole: se qualcuno è chiamato a decidere le sorti di un conflitto, in un sistema liberale, dunque in equilibrio tra le diverse opzioni, è imperativo, per preservare la genuinità della decisione e pure l’apparenza di tale genuinità, che egli sia (in)sensibile alle posizioni in gioco in pari misura. Un processo che ambisce a definirsi accusatorio, in altre parole, funziona solo così: tra ciascuno dei due che contraddicono e chi decide la distanza dev’essere identica e gli antagonisti devono disporre dei medesimi spazi operativi.
Per avversare la riforma sarebbe dunque sufficiente – e, per vero, anche necessario – confutare questo semplice assunto; in maniera diretta, senza bizantinismi concettuali, senza ciurlare nel manico. E invece, nelle riflessioni che ci intrattengono, tutto si legge fuorché questo. È un rincorrersi di argomenti eccentrici: dall’asserita inutilità della riforma rispetto ai mali della giustizia (compendiati tutti, par di capire, nella irragionevole durata dei processi), alla pretesa strumentalità delle nuove norme nella prospettiva di un riequilibrio dei rapporti tra i poteri dello Stato (nient’altro che la versione imbellettata della vendetta del potere politico sulla magistratura); dalla tregenda della “moltiplicazione degli enti” (nientemeno tre: due CSM e un’Alta Corte disciplinare; che servano a preservare indipendenza e autonomia poco importa), alla idea tutta originale della “enorme discrezionalità rimessa alla legislazione ordinaria” (a chi altri vuoi affidare la discrezionalità delle scelte legislative in un sistema democratico?); per arrivare alla agitata “inaffidabilità del sorteggio” per la composizione dei CSM, che del sorteggio come metodo trascura la profonda razionalità polemica, oggetto peraltro di approfondite ricerche e già sperimentato largamente per la composizione di organismi assembleari. Per non dire del pubblico ministero che “se non era terzo nel processo inquisitorio resta ugualmente non terzo nell’attuale processo (tendenzialmente) accusatorio” o del giudice che è assiomaticamente terzo a prescindere dal rito, dunque anche in seno a quello inquisitorio, che però è stato ritenuto incostituzionale “perché consente al giudice di rendersi parte attiva nella indagine istruttoria, così compromettendo la sua terzietà”. What?
Un bel minestrone, non c’è che dire, condito con riflessioni sparse sulla storia “della nostra democrazia … uscita indenne da tanti misteriosi attentati e dalle non poche minacce” anche grazie alla Magistratura, sulla saggezza dei Costituenti che non autorizza di immaginarli distratti nel disegnare una carriera unitaria, sulla tensione ideale che la Carta Costituzionale alimenta, sul ruolo partecipativo del significato della legge da parte di un Giudice interprete e non solo lettore della norma. Riflessioni che, prese per sé, sono tutte – o quasi – condivisibili, ma di cui sfugge il legame logico con il tema che ne dovrebbe costituire l’oggetto o, a tutto concedere, secondarie ed elusive del punto nodale posto a base della riforma. Non una parola su cosa sia il sistema accusatorio disegnato dall’art. 111 della Costituzione, su quali ne siano gli ineludibili presupposti, su com’è che le democrazie liberali d’Occidente e in genere i sistemi adversary trial vivano da sempre e in modo convinto su carriere separate.
La scelta per il cittadino, allora, non sarà – come ci racconta Finocchiaro – tra “PM-sceriffo” e “PM-giudice”, non solo perché quest’ultima figura ha a che spartire più con la mitologia greca che con la Costituzione italiana, ma pure perché, anche solo a immaginarla, una figura così distrugge d’emblée l’intero impianto accusatorio, lasciando impudicamente nuda l’idea della primazia del PM rispetto alla difesa come pure il disprezzo ideale per il processo accusatorio che simili stravaganze non tollera. Che se poi per davvero fosse quello il quesito, basterebbe scendere dalla cattedra e domandare per strada a chi, per le forche caudine di un processo, ci è passato per davvero per scoprire che se l’imputato avesse un solo ultimo desiderio prima del verdetto, sarebbe quello di avere un giudice imparziale e terzo che sappia equilibratamente decidere sulle richieste di fantomatici PM-giudici che fin lì lo hanno condotto credendo nella sua colpevolezza tanto da esercitare l’azione penale e da domandarne la condanna. (Dica adesso il candidato che ne è del PM-giudice).
Ecco, il punto – in quest’ultimo miglio più ancora che nella strada alle spalle – sta tutto qui: nel dialogo su un tema così delicato e importante per la vita collettiva, il desiderio onesto di sviluppare idee utili al lettore-elettore può essere appagato solo mediante una conversazione che rispetti le quattro “leggi della cooperazione” di Paul Grice e, fra esse, specie quella della “pertinenza”, che impone al dialogante di usare argomenti correlati al tema trattato, e quella del “modo”, che impone di raccontare le idee in maniera chiara e comprensibile. Violarle, per dire ancora con parole del famoso pragmatista, implica discorsi “infelici”; talvolta persino processualmente sgrammaticati.
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