Siamo tutti orfani di Carlo Levi e della sua idea di libertà

Carlo Levi è conosciuto solo per il pur fondamentale Cristo si è fermato a Eboli. Quasi autore di un unico libro. Molto distanziato appare l’altro romanzo, L’orologio (1950), sulla delusione degli ideali della Resistenza. Suggerisco di leggere quest’ultimo, unitamente agli scritti politici (1922-1942) raccolti e curati da David Bidussa per Einaudi (un testo edito nel 2001 e che potreste trovare su qualche bancarella). Eppure Levi proviene dall’esperienza di Giustizia e Libertà, da quell’area variegata di “sentire comune” libertario che si forma in Europa alla fine degli anni 20, un’area a cui in anni recenti ha volentieri attinto, a volte in modi goffi, la sinistra postcomunista improvvisamente orfana. Si tratta di gruppi della cultura antifascista anche molto diversi tra loro, uniti però da un denominatore comune antitotalitario (e dunque anticomunista), che tenta di coniugare centralità dell’individuo e ampliamento effettivo della democrazia. Non riesco a immaginare niente di più “attuale”!

L’opera di Levi, nutrita di questi umori e di queste tradizioni liberal-socialiste, non cessa di parlarci, di rivolgerci interrogativi urgenti, intrecciati con le grandi questioni contemporanee legate alla globalizzazione. Da un parte la sua è una critica – seppure anticipata – a modi e ai contenuti di questa globalizzazione, priva di regole (cioè di politica), del tutto subordinata all’economia e dall’altra è prefigurazione di una politica diversa, che non coincide con quella di partiti e leader, e anzi la rifiuta, riaffermando la sua prossimità ad una concreta dimensione civica e a un impegno etico individuale. La politica non tanto come tecnica per conquistare e gestire il potere o attività di negoziazione (entrambe cose ineliminabili, e codificate una volta per tutte nel Principe di Machiavelli) quanto come creazione di un contropotere, e soprattutto esperienza in sé formatrice, educativa: anche Martin Luther King esaltava la pratica della non-violenza non tanto per gli obiettivi che conquistava ma perché abituava una o più generazioni di neri a sentirsi come soggetti e non più come vittime.

Levi ha fatto politica per tutta la vita, dagli anni 20 con Piero Gobetti e poi con Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione e infine come indipendente di sinistra; però con una mentalità che potremmo definire “impolitica”, cioè non strumentale, non interamente finalizzata a vincere. Nel 1929 sottolineava, a testimonianza di una robusta formazione kantiana che il movente della politica era “una superiore coscienza etica”.

L’azionismo, benché non immune da un tono predicatorio e professorale (come ha rilevato lo stesso Norberto Bobbio, che ne fece parte) – e lacerato da spinte troppo divergenti al proprio interno -, rappresentò nel nostro Paese una fiammeggiante meteora: dava più importanza all’ethos diffuso che ai sistemi elettorali, più agli stili di vita che ai governi, più all’individuo che alle organizzazioni e agli stati-idoli. Levi, intellettuale critico e mai “organico”, parla molto propriamente di una generazione che “ha vinto in sé il fascismo”.

E certo fa impressione quell’immagine di Parri, proprio ne L’Orologio, fra i due volti cardinalizi e teologali di Togliatti e di De Gasperi, quasi Pinocchio tra il Gatto e la Volpe… La rimozione delle posizioni politiche di Levi ci ricorda come nel ‘900 il marxismo abbia monopolizzato ogni critica alla borghesia e all’esistente. Già nel 1932 Levi scriveva che «il nome stesso di comunismo ha una capacità di attrazione per il suo carattere mitologico di società futura», mentre il programma di Giustizia e libertà poteva lasciare insoddisfatti molti per la sua “mancanza di miti”. E invece proprio l’idea della politica come autogoverno enunciata dal socialista libertario Levi, era molto più “a sinistra” dei programmi del Pci, come gli riconobbe onestamente il comunista Aldo Natoli.

Levi infatti manterrà una simpatia verso tutte le esperienze consiliari, di un potere cioè esercitato dal basso. Ma insisto su un punto: è solo in queste esperienze di autogoverno che si forma l’individuo consapevole e responsabile, fondamentale alla democrazia; e soprattutto capace di modificarsi qui ed ora, senza rinviare al futuro l’emancipazione della società (il libro più bello di Vittorio Foa, ex azionista, si intitola La Gerusalemme rimandata).