Aleramo era già stata consacrata nell’alveo dei circoli intellettuali più avanguardistici: si avvicinò al Futurismo con Boccioni, intrattenne rapporti con Vincenzo Cardarelli e poi l’appassionato ma brutale amore di Dino Campana. La sua vita randagia dalle feroci passioni è stata puntualmente registrata nella produzione letteraria: nel 1919 esce Il passaggio, un romanzo “di ricerca” che insegue ciò che aveva taciuto in Una donna, e l’anno seguente Endimione, una riflessione poetica con echi dannunziani, dedicato al poeta vate. Sibilla Aleramo non fu indenne da contraddizioni. Sebbene nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, divenne in seguito sostenitrice del fascismo. Il duce (che i più freudiani interpretarono come l’ennesima ricerca edipica del padre) le riconobbe una piccola pensione di mille lire mensili e un premio dall’Accademia d’Italia, che la portò nel ’33 a iscriversi all’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate. Ma, all’indomani della guerra, nel 1946 aderì al Partito comunista e intrattenne un rapporto epistolare con l’allora segretario, Palmiro Togliatti, che confluì in pagine di carteggi indimenticabili, acquistati poi da Feltrinelli. Fu allora che ricevette la visita di Cesare Pavese, comparendo nel suo prezioso diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere, all’interno del quale Pavese la ricorda come «il fiore di Torino». Il suo vorace temperamento continuò a manifestarsi nella raccolta di poesie del 1947, Selva d’amore, nell’antologia delle prose, Gioie d’occasione e altre ancora (1954), e due anni dopo in Luci della mia sera, che comparve con una prefazione di Sergio Solmi. L’ultima delle romantiche moriva il 13 gennaio 1960, lasciando una caterva di pagine di diario e lettere d’amore. Eugenio Montale, che si sottrasse alla colletta per Sibilla Aleramo, quando abbandonò Giovanni Cena (avvalorando altresì la leggenda sulla sua proverbiale parsimonia), all’indomani della morte dell’autrice, ne descrisse la nobiltà del portamento e quella sua resistenza di fronte alle avversità con lo sguardo di chi è «sopravvissuta a tante tempeste».
Sibilla Aleramo, la donna che Pavese definì “il fiore di Torino”
