Sibilla Aleramo, la donna che Pavese definì “il fiore di Torino”

Nomen omen è la locuzione latina per designare “il presagio nel nome”. Lo pseudonimo scelto da Rina Pierangeli Faccio, Sibilla Aleramo, è un nomen omen: il destino di una donna trascritto fin dal debutto letterario da una celebrazione della sua terra natia. Difatti, la sua derivazione etimologica, “il suol d’Aleramo”, da un verso della poesia del Carducci, Piemonte, è un’ode di strofe saffiche che rimandava all’Alessandria piemontese di fine Ottocento in cui era nata. Sibilla trascorse la sua adolescenza istruendosi da autodidatta su Manzoni, Serao, Hugo e Dumas e visse nel solco di una madre reclusa nella condizione domestica, che tentò invano il suicidio. Fu drasticamente iniziata alla vita sessuale da uno stupro, cedendo poi alla proposta matrimoniale “di riparazione” del suo violentatore e padre di suo figlio. Nel 1987 Aleramo arrischiò il suicidio con il laudano, prima di trovare la catarsi nella letteratura.

L’esordio da scrittrice arriva nel 1906 con il romanzo Una donna, pubblicato dalla casa editrice torinese Sten, dopo la cecità dei rifiuti da Baldini e Castoldi e da Treves. Tradotto in sette lingue in soli due anni, non si limitò ad essere un fenomeno editoriale, bensì segnò l’inizio di un nuovo corso letterario. Un romanzo sfacciatamente autobiografico, imbevuto di socialismo ed emancipazione, che si lesse come un nuovo modo di pensarsi donne, poiché metteva in crisi lo stereotipo della dedizione materna e la subalternità del “secondo sesso”. Una donna aveva subìto il fascino della seduzione delle parole «eternità, progresso, universo, coscienza» e le aveva sublimate in un documento di attestazione storica di proto-femminismo, che due anni più tardi vide ospitare a Milano il primo congresso nazionale delle donne italiane. Sibilla Aleramo preconizzò la figura della scrittrice professionista, abbandonando suo figlio, pur di perseguire la sua vocazione letteraria. Una scelta polarizzante, disprezzata da molte femministe, che spostarono l’attenzione sulla vera vittima del romanzo (e della vita dell’autrice), ossia il figlio, martire di una sottrazione della donna-madre dal suo sacrificio estremo, quello di restare. Nella realtà, quel gesto avrebbe dovuto suffragare l’idea che una donna che disponesse di propri mezzi per vivere potesse coltivare anche una sua individualità. Il romanzo attirò l’attenzione di Pirandello che, in una celebre recensione sulla “Gazzetta del Popolo”, espresse la sua ammirazione verso l’autrice, pur contestandole il fine personalistico dell’opera.

Pirandello mosse una critica di intenti: quel romanzo, specie nel finale, tradiva gli ideali puramente artistici della letteratura e si piegava, compromettendosi, a intenti espliciti di vita. Lo scrittore siciliano aveva confutato, nel suo saggio su L’umorismo, «gli ideali della vita per se stessi, (perché) non hanno nulla da vedere con l’arte», e l’appello al figlio che chiude Una donna, per Pirandello strumentalizza l’ideale romanzesco e sfugge alla relativizzazione dei rapporti e dei valori che questi stava mettendo in scena, proprio negli stessi anni. È un caso, quello di Sibilla Aleramo, in cui autrice e testo si sovrappongono e si contaminano vicendevolmente: per Giacomo de Benedetti, Sibilla viveva «autobiograficamente» e Piero Gobetti, suo grande amico, considerava «la sua vita un romanzo, viziato anch’esso da una monotonia fisiologica». Sono gli anni in cui D’Annunzio promuoveva il mito del “vivere inimitabile” e coltivava il principio estetico del capolavoro della sua vita; Angelo Conti, l’asceta della bellezza, discuteva del connubio dell’Arte con la vita e intanto Aleramo tesseva il vissuto col romanzesco. Una donna non fu immune da censure e manipolazioni. Il racconto della smania di un amante lontano, che nella realtà fu il poeta Felice Damiani, al quale Sibilla era legata da un rapporto amoroso, subì la violenza censoria di Giovanni Cena, direttore della rivista “Nuova Antologia” e suo compagno dal 1902, che amputò quelle pagine.

Aleramo era già stata consacrata nell’alveo dei circoli intellettuali più avanguardistici: si avvicinò al Futurismo con Boccioni, intrattenne rapporti con Vincenzo Cardarelli e poi l’appassionato ma brutale amore di Dino Campana. La sua vita randagia dalle feroci passioni è stata puntualmente registrata nella produzione letteraria: nel 1919 esce Il passaggio, un romanzo “di ricerca” che insegue ciò che aveva taciuto in Una donna, e l’anno seguente Endimione, una riflessione poetica con echi dannunziani, dedicato al poeta vate. Sibilla Aleramo non fu indenne da contraddizioni. Sebbene nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, divenne in seguito sostenitrice del fascismo. Il duce (che i più freudiani interpretarono come l’ennesima ricerca edipica del padre) le riconobbe una piccola pensione di mille lire mensili e un premio dall’Accademia d’Italia, che la portò nel ’33 a iscriversi all’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate. Ma, all’indomani della guerra, nel 1946 aderì al Partito comunista e intrattenne un rapporto epistolare con l’allora segretario, Palmiro Togliatti, che confluì in pagine di carteggi indimenticabili, acquistati poi da Feltrinelli.

Fu allora che ricevette la visita di Cesare Pavese, comparendo nel suo prezioso diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere, all’interno del quale Pavese la ricorda come «il fiore di Torino». Il suo vorace temperamento continuò a manifestarsi nella raccolta di poesie del 1947, Selva d’amore, nell’antologia delle prose, Gioie d’occasione e altre ancora (1954), e due anni dopo in Luci della mia sera, che comparve con una prefazione di Sergio Solmi.

L’ultima delle romantiche moriva il 13 gennaio 1960, lasciando una caterva di pagine di diario e lettere d’amore. Eugenio Montale, che si sottrasse alla colletta per Sibilla Aleramo, quando abbandonò Giovanni Cena (avvalorando altresì la leggenda sulla sua proverbiale parsimonia), all’indomani della morte dell’autrice, ne descrisse la nobiltà del portamento e quella sua resistenza di fronte alle avversità con lo sguardo di chi è «sopravvissuta a tante tempeste».