È lecito usare i libri per addestrare l’IA. Una decisione storica, quella del giudice federale di San Francisco William Alsup, che ha segnato un primo punto a favore delle Big Tech sul ring di confronto tra creatività umana e intelligenza artificiale. Il tribunale ha stabilito che Anthropic, startup californiana creatrice del chatbot “Claude”, non ha violato la legge sul diritto d’autore addestrando i propri modelli linguistici su libri acquistati legalmente. È il principio del “fair use” a sostenere la sentenza: un uso trasformativo delle opere a fini di ricerca e sviluppo che, secondo la normativa americana, può essere ritenuto legittimo.
Startup usa libri per addestrare l’IA, ma erano copie pirata.
La causa, promossa dagli scrittori Andrea Bartz, Charles Graeber e Kirk Wallace Johnson, denunciava l’utilizzo non autorizzato dei loro testi per l’addestramento di Claude. Ma per il giudice, la legge sul copyright serve a stimolare la creazione, non a eliminare la concorrenza. “Come qualsiasi lettore che aspiri a diventare scrittore – spiega Alsup nella sentenza – i large language models di Anthropic si sono basati sulle opere non per scavalcarle, replicarle o sostituirle, ma per creare qualcosa di diverso.” Se l’uso dei libri comprati è stato considerato legittimo, resta aperta un’altra questione: l’uso di oltre 7 milioni di testi scaricati da fonti pirata. Su questo fronte si aprirà un nuovo processo a dicembre. Anthropic rischia di dover pagare fino a 150.000 dollari per ciascuna opera usata.
La tutela delle opere
Dall’altra parte dell’oceano, la Danimarca si fa portavoce di un’iniziativa che potrebbe fare scuola. Contro il rischio dei deep fake, è stata annunciata una proposta di legge che punta a tutelare legalmente volto e voce delle persone come fossero opere protette da copyright. Il Ministro della Cultura Jakob Engel-Schmidt lo ha detto chiaramente: “Ogni persona ha il diritto sul proprio corpo, sulla propria voce e sui propri tratti somatici. Gli esseri umani non devono essere trasformati in copie digitali da sfruttare impropriamente per qualsiasi scopo”. Un messaggio potente in un’epoca in cui bastano pochi secondi per creare falsi digitali credibili, con potenziali effetti devastanti sulla reputazione, sulla privacy e sull’identità. In Italia, ANAD – Associazione Nazionale Attori Doppiatori – spinge da tempo per far riconoscere la voce come dato biometrico, e insieme ad altri paesi ha dato vita a UVA – United Voice Artists, un organismo internazionale per tutelare la proprietà intellettuale e artistica nella nuova era dell’intelligenza artificiale. Il panorama giuridico si muove lentamente, mentre l’innovazione corre sempre più veloce. Le sentenze aprono varchi, ma lasciano molte questioni sospese. Fino a che punto è possibile addestrare le macchine con l’ingegno umano senza ledere i diritti di chi quell’ingegno lo ha prodotto? Diventa sempre più urgente il richiamo a un’etica dell’innovazione. Perché ogni algoritmo, ogni modello generativo, si costruisce su un patrimonio culturale che è umano prima che digitale.
La vera sfida
Ed è lì che si gioca la vera sfida: tutelare non solo le opere, ma le identità. Oscar Wilde diceva: “Sii te stesso; tutto il resto è già stato preso.” Ma non aveva ancora fatto i conti con l’intelligenza artificiale. Oggi essere sé stessi è un diritto da ribadire anche nel digitale, dove voce, volti e parole rischiano di diventare semplici materiali d’addestramento. Non si tratta di opporsi al progresso, ma di ricordare che l’innovazione funziona davvero quando sa rispettare l’individualità.
