Mbaye è in Italia dal 1987. Viene dal Senegal. Ora ha settantadue anni. Vantava qualche parvenza di proprietà, fino a ieri: alcuni berretti, qualche ombrello, una mezza serqua di cavetti usb, otto confezioni di mascherine, dei sacchetti di plastica per la cacca dei cani e quattro tagliaunghie. Si sarebbe liberato a poco a poco di questi possedimenti, cedendoli per qualche euro ai passanti che ormai lo conoscono perché lui sta sempre lì, sotto quel cornicione che lo ripara dalla pioggia e durante l’estate dal sole viscido di Milano. Adesso è ancora lì.
Fissi sul niente, due occhi insultati dalla cataratta simulano un’incongruità azzurra, ed erano gli stessi che ieri stavano abbassati mentre quattro poliziotti dell’Italia cristiana e democratica gli sequestravano quel ciarpame Made in China messo insieme nell’esercizio del suo commercio ambulante. Era fuori zona. Cinquecento metri più in là andava bene, ma la pacchia di una via del centro gli era inibita; e non bastava dirglielo, non bastava chiedergli di sloggiare, un’intimazione già sufficientemente vergognosa: bisognava dare esecuzione al sequestro e poi – perché evidentemente il fondo non era toccato – occorreva irrogare la pedissequa sanzione, mille euro per essersi abbandonato a quello spaccio nel quartiere sbagliato.
Un ordinario sacchetto di spesa natalizia di un abitante medio di quella via vale assai più della merce sottratta a Mbaye, e un paio di sedute dal parrucchiere della signora che gli passa davanti col cagnolino a sua volta tolettato costano quello che lui raggranella a fatica nel mese buono. Ora per pagare quei mille euro di multa dovrà indebitarsi ulteriormente, perché lo hanno privato anche del poco che aveva per tirar su qualcosa con cui mangiare una volta al giorno: e non troppo, perché i soldi servono alla famiglia.
Poco più in su, all’incrocio, settantacinque anni fa c’erano i detriti di Milano bombardata, e davanti alla farmacia lì accanto insorgeva una catasta di cadaveri tiepidi nel sole di aprile. Il nitore repubblicano ha fatto pulizia di quei ricordi, ma tenerli vivi servirebbe a comprendere che qualcosa non va bene se l’orrore della guerra è sostituito dal decoro che, in armi, affama un diseredato africano di settantadue anni. I poliziotti che compilavano il verbale delle violazioni commesse da Mbaye non erano gli autori della legge che lo ha privato dei mezzi di sostentamento: e tuttavia c’è da credere che un analogo rigore esecutivo ricorra meno facilmente quando l’irregolarità è vestita bene, e sembra proprio che almeno in un caso, e cioè quando si tratta di infierire, i neri vengono prima.
Che tutti, qui da noi, abbiano pari dignità sociale, senza distinzione di razza e condizione economica, è assai meno una realtà che un proposito evidentemente troppo ambizioso. E la Repubblica, che dovrebbe rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, è la stessa che mobilita le forze dell’ordine per rimuovere invece le cianfrusaglie di Mbaye, e gli lascia in mano un verbale con su scritto che entro sessanta giorni deve pagare tutti quei soldi. Non era arrabbiato mentre la polizia si allontanava.
Piangeva.
