Tre toghe mi vogliono in galera per un apprezzamento sgradito

L’altro giorno trovo nella cassetta delle lettere una busta verde con un cartiglio inequivocabile: “NOTIFICHE PENALI”. Tre magistrati mi hanno querelato. Dice: e allora? E allora niente, so bene che è routine (non per me, che non ho mai ricevuto querele): ma m’interessa capire che cosa spinge qualcuno a fare istanza affinché qualcun altro sia processato e sottoposto una sanzione penale, possibilmente la galera. E non perché il querelante lamenti una coltellata, o di essere passato pubblicamente per stupratore di bambini, ma perché si duole di un apprezzamento sgradito: che è una cosa da cui ci si può difendere in tanti modi (una replica, una richiesta di scuse, persino una diffida), senza che sia necessario reclamare la gattabuia per il presunto colpevole.

Inutile precisare che in materia ho un pregiudizio. Io sono per l’abolizione del carcere, persino per l’abolizione della pena: figurarsi, dunque, quanto sia lontana da me anche la sola idea che un mio simile, su mio impulso, possa finire in prigione. È una questione culturale, civile, di impostazione umana, e certamente non posso pretendere che sia condivisa. Nell’ambiente in cui ho cominciato, ahimè troppi anni fa, a fare il mestiere che faccio (sono avvocato, mi occupo di proprietà industriale), si guardava con compatimento, e forse con un po’ di disprezzo, ai colleghi che si affidavano al giudice penale per risolvere i casi della nostra materia. Non ci piaceva, anzi ci ripugnava proprio, che una lite su un marchio o su un brevetto finisse in perquisizioni e anni di prigione. Le norme penali esistevano, ma erano lasciate lì, inerti, e nessuno tra noi si sognava di farvi ricorso.

Ora non importa riferire chi siano i magistrati che mi hanno querelato (son tra quelli più noti, quelli sempre in Tv), né importa (se non a me) che abbiano querelato me: e piuttosto, come dicevo, mi interessa e credo sia di interesse capire come e con quale coscienza si possa richiedere che una persona sia processata e condannata alla privazione della libertà. Devo ritenere che il querelante ritenga giusto, civile, appropriato che un essere umano – non un soggetto pericoloso, non una persona che, se lasciata libera, potrebbe arrecare nocumento all’incolumità altrui – sia imprigionato. Voglio sperare che la risposta non stia nell’osservazione che tanto in galera non ci finisce mai nessuno, e che quindi chiedere il carcere è innocuo perché poi uno lo scampa.

Né ovviamente ci si può aspettare che certe meditazioni turbino gli intendimenti di chi si è fatto un nome mandando in galera la gente. Ma un fatto è certo: la giustizia di questo Paese sarebbe diversa, pur a norme invariate, se quelli che la amministrano non nutrissero la fede che invece dimostrano per il sistema penale; se non dimostrassero questa totale noncuranza nell’essere causa dell’afflizione altrui; se provassero pena per le pene che chiedono per gli altri. Infine: se sentissero il peso del male che sono chiamati a fare. Perché se lo sentissero, credo, tanto più rigorosamente eviterebbero di farne quando nemmeno vi sono chiamati. E non farebbero più querele, credo.