Dopo giorni in cui notizie negative si alternavano a sondaggi in calo, Donald Trump ha scelto di agitare la più pericolosa delle minacce: quella nucleare. Ha dichiarato di aver “ordinato a due sottomarini nucleari di posizionarsi nelle aree opportune”, in risposta a recenti dichiarazioni dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev. E non lo ha fatto durante una conferenza stampa o, più opportunamente, con un messaggio al Congresso, ma semplicemente con un post pubblicato il 1° agosto sul suo social network Truth. “Le parole sono molto importanti e possono spesso portare a conseguenze non volute, spero che questa non sia una di quelle occasioni”, ha proseguito il presidente, chiudendo il terrificante messaggio con un ancora più surreale: “Grazie per l’attenzione su questo tema”.
L’affermazione, in sé, potrebbe non significare nulla di concreto. I sottomarini lanciamissili balistici statunitensi pattugliano regolarmente gli oceani, ciascuno di loro ha fino a 20 testate nucleari a bordo e missili con un raggio superiore ai 6.000 chilometri. Buona parte della superficie degli oceani, quindi, può essere definita “area opportuna”. Inoltre, il Pentagono e la Casa Bianca, di norma, non trattano sui movimenti di queste unità. Il Presidente dà indicazioni strategiche e poi è il Pentagono che si preoccupa di tradurle in indicazioni tattiche per le unità americane, per cui non si sa nemmeno se l’ordine sia effettivamente stato impartito o se si tratti di pura retorica.
Un duello social con “Malen’kiy Dima”
Medvedev, ex presidente e oggi privo di potere reale, si è ritagliato il ruolo del più aggressivo troll politico del Cremlino; da mesi scambia insulti pubblici con Trump. Quest’ultimo lo ha invitato più volte a “misurare le parole”, mentre l’ex presidente russo – soprannominato in patria “Malen’kiy Dima” (“piccolo Dmitrij”) per la sua bassa statura – ha replicato evocando il sistema d’arma russo definito in occidente come “Dead Hand”: un meccanismo di ritorsione automatica in grado di lanciare l’intero arsenale nucleare anche in caso di distruzione di Mosca e morte della leadership. Il suo funzionamento consisterebbe in una continua inibizione – comandata dalla presidenza – del lancio di tutte le armi nucleari.
Se l’inibizione cessa per qualsiasi motivo, come la distruzione totale di tutto il sistema di comando e controllo russo, allora il meccanismo di blocco si annulla e tutti i missili con armi nucleari strategiche vengono lanciati sugli obiettivi preimpostati senza la necessità che nessuno debba premere il terribile “pulsante rosso”. La realtà è che nessuno, nemmeno in Russia, prende davvero sul serio Medvedev. Ma il problema non è lui: è l’uso disinvolto, da parte del presidente degli Stati Uniti, di riferimenti alle armi nucleari come strumento di polemica personale o di distrazione politica.
Il “giocattolo” più pericoloso
Fin dalla sua prima campagna elettorale dieci anni fa, Trump ha mostrato una comprensione limitata del tema nucleare, definendolo semplicemente “molto importante”. In più occasioni ha dimostrato di non afferrare nemmeno le componenti strategiche della deterrenza USA, basate sulla triade costituita da piattaforme terrestri, bombardieri strategici e sottomarini dotati di missili balistici. Ora, dopo quasi cinque anni alla Casa Bianca e innumerevoli briefing sull’argomento, continua a trattare il tema con incosciente leggerezza, rompendo una tradizione di estrema cautela condivisa da tutti i suoi predecessori. Le parole di un presidente in materia nucleare non sono mai banali.
Dalla Guerra Fredda in poi, ogni riferimento pubblico alle forze strategiche americane è stato calibrato con la massima attenzione, in modo da comunicare segnali chiari ad alleati e avversari senza generare ambiguità o escalation indesiderate. Nessuno dei precedenti undici presidenti che hanno avuto il potere di autorizzare l’uso delle armi nucleari ha mai usato queste minacce per polemiche personali o come diversivo da problemi interni. Trump invece ha abbattuto queste barriere, inaugurando un’era in cui il deterrente strategico può diventare uno strumento di propaganda interna, per rafforzare la propria immagine di leader forte o per spostare l’attenzione mediatica da questioni spinose.
Armi di distrazione di massa
L’uscita di Trump arriva infatti in un momento difficile: cominciano a nascere i primi dubbi sulla reale efficacia della politica dei dazi selvaggi inaugurati in queste settimane, lo scandalo legato al caso Epstein si è riacceso, l’economia mostra segnali negativi e i sondaggi registrano un sistematico calo di consensi. Nulla attira l’attenzione dei media quanto una crisi di politica estera, soprattutto se coinvolge la parola “nucleare”. È una mossa collaudata: il dibattito si sposta all’istante, i titoli aprono sull’allarme atomico e le altre notizie scivolano in secondo piano. In questo schema, Medvedev è un avversario perfetto: un vero e proprio troll privo di reali poteri, insolente e provocatorio, ma non così pericoloso da generare un confronto diretto con Vladimir Putin, figura con cui Trump evita accuratamente lo scontro verbale. Per ora, gli avversari nucleari degli Stati Uniti sembrano aver imparato a soppesare le parole provenienti dalla Casa Bianca, il mondo comincia ad abituarsi alle sparate, prive di reale peso, di un personaggio bislacco che si rimangerà tutto dopo poche settimane o poche ore. Ma il rischio che, un giorno, un messaggio del genere venga preso alla lettera non può essere escluso.
La deterrenza nucleare funziona solo se entrambe le parti interpretano correttamente le intenzioni reciproche. Un linguaggio ambiguo o usato in modo strumentale può minare questa comprensione e, in uno scenario di crisi reale, avere conseguenze catastrofiche. Questo episodio non segnerà probabilmente l’inizio di una nuova crisi internazionale, ma rappresenta l’ennesima erosione delle regole non scritte che hanno finora guidato la condotta nucleare americana. Il deterrente strategico non è un giocattolo da agitare sui social: è l’ultima risorsa di sicurezza nazionale, da maneggiare con estrema prudenza e piena consapevolezza. Averlo trasformato in un espediente mediatico è un segnale preoccupante: in un’epoca di crisi globali, il mondo avrebbe bisogno di maggiore serietà, non di irresponsabili battute sui social.
