Andrea Margelletti è analista strategico e presidente del Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali. Da anni osserva i teatri di crisi e le dinamiche della sicurezza euro-atlantica. In questa conversazione mette in fila fatti, rischi e priorità, senza indulgenze verso letture consolatorie.

L’incontro di Zelensky con Trump e i colloqui con grandi player industriali segnalano un cambio di clima? È davvero un passaggio “storico”?
«No. Non confondiamo la “storicità” con l’ansia giornalistica. Zelensky ascolterà con attenzione Washington perché l’Ucraina dipende dall’aiuto americano, ma questo non trasforma automaticamente un’agenda di incontri in svolta storica».

Esiste oggi un dialogo capace di aprire un processo di pace sul fronte russo-ucraino?
«No. Parlare di processo di pace, ad oggi, non sarebbe intellettualmente onesto. I russi non hanno cambiato linea dal febbraio 2022: continuano offensive e bombardamenti, perfino contro convogli delle Nazioni Unite. Parlare di processo di pace senza segnali concreti sul terreno è una rappresentazione che non corrisponde ai fatti. Siamo in tutt’altra situazione».

L’ipotesi di un faccia a faccia Putin-Trump a Budapest non è un segnale di disgelo?
«Si era parlato del vertice in Alaska con altrettante aspettative. È andato come sappiamo: male. Budapest poi non depone a favore. L’Ungheria è il Paese UE più ostile all’Ucraina: non è certo un contesto che indica apertura. Gonfiare le aspettative significa deludere l’opinione pubblica. La domanda vera è se sul campo ci siano pause operative russe. La risposta è no».

ANDREA MARGELLETTI

Regole d’ingaggio: come comportarsi quando aerei armati violano spazi NATO?
«Le intercettazioni servono a imporre l’allontanamento: se chi viola non obbedisce, la mancata reazione diventa un invito a testare ancora. Se un avversario verifica che la NATO non reagisce, la “prova” successiva sarà più ampia. La deterrenza richiede coerenza».

Per quale ragione i russi continuano a mandare aerei in sorvolo sui confini?
«Per testare la risposta. Oggi mandano tre aerei e non succede niente. Allora domani ne mandano dieci, e se non c’è una risposta adeguata ne seguiranno trenta. Quando ne dovessero mandare cento e bombardassero gli aerei militari negli aeroporti, che cosa faremmo?»

Non è una bella prospettiva…
«Io sono un analista, non lavoro sugli auspici e sulle speranze ma sui dati di realtà. Dopo la domenica viene il lunedì. Possiamo essere d’accordo che è meglio la domenica, perfino auspicare che duri il più a lungo possibile, ma poi il lunedì arriva e si torna al lavoro. E questa è la realtà».

A proposito dei droni negli aeroporti europei, spesso i media sono concentrati sugli “oggetti”, meno su chi li lancia. Dove sta il punto?
«Il problema non è l’oggetto, appunto, ma l’operatore. Quando c’è un incidente d’auto il punto sta nella macchina o in chi la guida? Se ci sono droni che bloccano gli scali a Monaco, Francoforte o Londra, partono dall’Europa. Non dal territorio russo. Chi li aziona, chi li manovra? L’informazione dovrebbe chiedersi chi organizza e finanzia queste azioni, non fermarsi all’effetto scenico».

Difesa europea: droni, carri, standard. Perché è così difficile uniformare?
«Perché l’Europa non è una nazione. Ogni Paese tutela la propria base industriale e la ricerca pagata dai contribuenti. Esistono standard comuni (munizionamenti, interoperabilità), ma senza un Parlamento europeo con mandato vero continueremo ad avere 27 scelte legittime ma divergenti».

Serve omogeneità nei sistemi d’arma ma a monte, serve una maggiore integrazione politica nella UE, la vede come urgenza?
«Non è urgente: è drammatica. Una parte rilevante dell’elettorato guarda al passato e invoca il “piccolo mondo antico”. In un sistema globale, questa nostalgia ci rende irrilevanti».

Guardando al futuro, il conflitto in Europa è evitabile? E come leggere la spesa militare?
«Il rischio di un conflitto in Europa è alto. Bisogna investire, e farlo ora. Se investiamo in difesa e il conflitto non avviene, avremo rafforzato sicurezza e deterrenza. Se non investiamo e il conflitto avviene, il costo umano sarà enorme. È una scelta di responsabilità, non d’ideologia. Da questo punto di vista bisogna seguire quanto dice, da tempo, il ministro Guido Crosetto».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.