Trump ha esercitato una forte pressione su Erdoğan affinché interrompesse le importazioni di gas e petrolio russo, un compito arduo per la Turchia, terzo acquirente al mondo dopo Cina e India e dipendente dai prodotti energetici di Mosca per circa il 60% del suo fabbisogno. Non bisogna farsi trarre in inganno dal rinnovato feeling tra i due leader perché se da una parte ciò segnala che il gelo degli anni di Biden è finito, dall’altra fa emergere le numerose criticità esistenti nelle relazioni tra Stati Uniti e Turchia.
Alla base della riconciliazione tra Erdoğan e Trump vi è la volontà di intrattenere solide relazioni commerciali e ciò è confermato dalla firma di un accordo multimiliardario per la fornitura ad Ankara di aerei Boeing da oltre 200 passeggeri e di un Memorandum d’intesa sulla cooperazione nucleare civile. Il presidente Trump si è mostrato disponibile al raggiungimento anche immediato di un accordo sugli F-35 e alla rimozione delle sanzioni Caatsa imposte all’industria della Difesa turca sulla quale c’è la forte contrarietà del Congresso, ma ha precisato che Erdoğan dovrà fare qualcosa per gli Usa. Tra le richieste che Trump ha rivolto al leader turco, vi è quella perentoria di non comprare più gas e petrolio da Mosca convincendolo a firmare un accordo ventennale sul Gas naturale liquido (Gnl), aprendo così un nuovo capitolo nell’equilibrio geopolitico-energetico della Turchia.
Questo accordo, stipulato alla Casa Bianca nell’incontro del 25 settembre scorso, dalla turca BOTAŞ con le aziende che commercializzano gas naturale di origine statunitense, non è solo una garanzia di approvvigionamento energetico a lungo termine, ma anche una chiara espressione della determinazione della Turchia a ridurre la dipendenza dalla Russia, diversificare il proprio mix energetico e aumentare la propria autonomia geopolitica. Erdoğan si è sentito rifiutare da Trump anche lo sblocco dei due miliardi di dollari che la Rosatom russa aveva inviato alla Turchia per la costruzione della centrale di Akkuyu, infatti questa cifra è trattenuta nelle banche americane per effetto delle sanzioni di Washington applicate a Mosca. Il messaggio di Washington è chiaro: “Ridurre o addirittura eliminare le importazioni di gas e petrolio dalla Russia”. Questa richiesta non è rivolta solo ad Ankara, ma anche all’Unione europea che continua ad acquistare gas russo attraverso l’Azerbaigian. Mosca ora dipende molto da Baku, attraverso la quale vende il suo petrolio all’Europa confezionato come azerbaigiano.
Ad onor del vero, in soli tre anni, l’Unione europea ha adottato misure storiche per ridurre fortemente le importazioni di combustibili fossili da Mosca dopo la guerra in Ucraina: zero importazioni di carbone, importazioni di petrolio dal 27% al 3% e importazioni di gas dal 55% a meno del 5%. Germania e Regno Unito stanno ricostruendo le loro infrastrutture di GNL, allineandosi a Stati Uniti e Qatar; la Bulgaria ha deciso di interrompere il transito del gas russo a partire dal 2026. Ricordiamo che l’energia è in relazione al posizionamento geopolitico e alla politica tecnologica. Il gas naturale non è più solo un combustibile per l’industria, l’elettricità, l’edilizia abitativa e la produzione di fertilizzanti. Nella geopolitica energetica del XXI secolo, è uno strumento strategico che plasma la politica estera degli Stati, determina la competitività delle industrie e può persino cambiare il corso delle guerre. Il gas naturale rimane la spina dorsale dell’industria, la spina dorsale dell’economia ed è una delle leve diplomatiche più efficaci. Pertanto, da chi otteniamo questa risorsa, come, a quale prezzo, con quali metodi di trasporto e in linea con quali obiettivi strategici, non è solo una mera questione commerciale, ma è soprattutto una questione di visione futura.
I prossimi due anni saranno cruciali per la ristrutturazione della strategia del gas della Turchia. Infatti il contratto con l’Iran scade nel 2026. L’accordo con l’Algeria scadrà nel 2027. Alcuni contratti con la Russia saranno rinnovati tra la fine del 2025 e l’inizio del 2026. L’accordo ventennale sul GNL firmato con gli Usa entrerà in vigore nel 2026. La scacchiera del gas naturale tenderà a ridefinirsi nel prossimo decennio.
La decisione di riaprire l’oleodotto Iraq-Turchia, chiuso da oltre due anni, non è soltanto una decisione legata all’export di greggio: è la manifestazione di un nuovo equilibrio tra Baghdad, Ankara e Washington. L’intesa, avvenuta su pressione della diplomazia statunitense, consente di far fluire nuovamente verso il porto turco di Ceyhan circa 400-450 mila barili al giorno provenienti dai giacimenti del Kurdistan iracheno. Per Baghdad significa rimettere in moto una fonte di entrate che prima dello stop valeva circa il 10% del bilancio nazionale; per la Turchia rappresenta un vantaggioso introito di tariffe di transito e di un suo ruolo da hub energetico; per gli Stati Uniti è un tassello nella strategia di contenimento dell’influenza russa e iraniana sul mercato petrolifero regionale.
Il trasporto di gas dai giacimenti del nord dell’Iraq e della Siria all’Europa attraverso la Turchia potrebbe trasformare l’Anatolia in un cruciale hub strategico, superando la sua natura di Paese di transito. Il mutato equilibrio nel Mediterraneo orientale potrebbe offrire alla Turchia nuove opportunità di partnership con l’avvio dello sfruttamento dei giacimenti al largo di Israele, Egitto e Cipro. Ankara potrebbe far valere il suo peso geopolitico, magari anche con la Grecia, per posizionarsi al centro del mercato del trasporto di questo gas verso l’Europa creando un imponente corridoio regionale lungo l’Egeo e il Mediterraneo orientale. Una struttura di questo tipo potrebbe trasformare la Turchia non solo in un paese di transito, ma anche in un centro di determinazione dei prezzi dell’energia.
