Trump sale sul ring dell’Onu: von der Leyen pensa al cambio di politiche, ma l’Europa da sola non ce la fa

KAJA KALLAS ALTO RAPPRESENTANTE DELL'UE PER GLI AFFARI ESTERI, URSULA VON DER LEYEN PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA, ANTONIO COSTA PRESIDENTE CONSIGLIO EUROPEO

Ma se Trump attacca l’Europa, l’Europa risponde? Eccome se lo fa. E pure con celere obbedienza. Non è chiaro se, l’altro giorno al Palazzo di vetro, il presidente Usa ce l’avesse di più con le Nazioni Unite o con l’Ue. Puntare il dito su immigrazione e politiche ambientali ha significato, per lui, mettere sul patibolo tutte quelle organizzazioni internazionali che vedono nei flussi migratori e nel cambiamento climatico rispettivamente un’opportunità da cogliere e una sfida da vincere. Una visione del mondo del tutto opposta ai pilastri Maga.

D’altra parte, quanto conviene a un’Europa debole e indifesa anteporre i suoi nobili principi, in cui tutto il suo parlamento crede, piuttosto che lavorare pancia a terra su obiettivi più pragmatici, che, magari, una volta raggiunti, rispecchiano proprio i valori fondanti dell’Unione? Per questo è possibile che lo sguardo glaciale di Ursula von der Leyen, inquadrata senza pietà dalle telecamere mentre ascoltava Trump, celasse la crescente consapevolezza che, ancora una volta, l’Europa dovrà (con)cedere qualcosa a Washington. Del resto, qual è lo scandalo del discorso di Trump all’Onu? La postura volgare del suo gomito sul leggio? Che, si dice, sarebbe apparsa irriguardosa verso un’istituzione che governa il mondo. Stiamo davvero facendo un discorso di sostanza e forma? Oppure non è piaciuto quando The Donald si è fatto beffe delle Nazioni unite perché incapaci di risolvere i conflitti? Sul fatto che ci sia riuscito lui siamo tutti d’accordo a storcere il naso.

Ma alzi la mano chi ha le prove che l’Onu, nei suoi ottant’anni di regno, abbia sedato anche un solo vento di guerra. No, gli sgarbi di Trump, per quanto indecorosi possano apparire per un presidente degli Stati Uniti d’America, non sono né nulla di nuovo, né, tutto sommato, campati per aria. Ecco perché all’Ue non conviene dargli contro. Anzi. Prima Bruxelles lo ammansisce, prima evita una nuova lavata di capo. Magari arrivando perfino a un accordo favorevole. La sua tattica dovrebbe esserci ormai nota. Per Trump i negoziati sono un incontro di boxe. Al suono del gong, lui massacra l’avversario. Una volta mandato a tappeto – per imprevedibili ragioni di empatia frammista a interessi calcolati in corso di match – c’è la possibilità che lo aiuti a rialzarsi e magari gli passa pure la spugna. L’ha fatto con Zelensky, con la Nato e il Canada. Solo Starmer si è evitato questo supplizio. Ma giusto perché ha sfoderato i gioielli della Corona e tutto l’oro dei Windsor in modo da abbagliare il Tycoon e fargli credere di essere anche lui un re. Più o meno è andata così anche nel Golfo.

Ora, dignità a parte, conviene all’Unione europea andarsela a cercare? Abbiamo ancora le energie per sentirci dire che non contiamo nulla e che siamo condannati alla distruzione? Il bullismo già visto con in dazi e la guerra in Ucraina non ha certo risvegliato l’orgoglio a Bruxelles dei padri fondatori. Anzi. Le adulazioni di Rutte e gli accordi di fine giugno sulle tariffe commerciali – raggiunti in un poco convenzionale golf club scozzese, di proprietà di Trump – devono farci riflette che, sì, ob torto collo, tanto vale cedere anche su questo. E quindi rivedere le politiche migratorie e abbandonare l’approccio ideologico green. E chi meglio del trasformista Partito popolare europeo può bere questo amaro calice?

Manfred Weber non nasconde l’intenzione di intervenire in favore dell’industria europea. Tanto più che molti imprenditori devono aver gongolato al sentir dire che il cambiamento climatico è una truffa, coal is cool – il carbone è bello, ma tradotto non fa effetto – e che la Germania è andata quasi in rovina per le troppe pale eoliche. Molti, ma certo non quelli che nel Green Deal hanno investito tanto. Per non dire dell’immigrazione, che, se la contieni, non fai altro che togliere legna dal fuoco della destra radicale. Ovvio, per von der Leyen non sarà facile convincere i commissari più virtuosi a cambiare idea. Palazzo Berlaymont val bene questo sforzo però. L’Europa da sola non ce la fa. Questo è il punto. Quindi o resta con gli Usa, maleducati così non sono mai stati, oppure si va con Cina e Russia, che sono un po’ peggio. Almeno per ora.