Il nostro sistema normativo in materia di successione ereditaria è fortemente permeato sulla tutela della famiglia e sull’idea di garantire che il passaggio generazionale di un patrimonio avvenga preferibilmente a favore dei più stretti familiari.
Ciò avviene attraverso due istituti: la successione legittima, che opera automaticamente in mancanza di testamento e la riserva che spetta ai legittimari in presenza di una volontà contraria del testatore. Proviamo a spiegare cosa significhi.
Ciascun individuo lascia alla sua morte degli eredi (coniuge, figli, genitori, fratelli e sorelle etc) definiti eredi legittimi, chiamati per legge a subentrare nel patrimonio del defunto in quote stabilite. Per cui, in mancanza di una volontà testamentaria, è la legge a sopperire, individuando con un criterio suppletivo (da riconoscersi nel vincolo di parentela o di coniugio) i soggetti che possono ereditare e le quote a ciascuno spettanti.
Il legislatore si è spinto però oltre, riconoscendo a favore dei più stretti familiari una vera e propria successione necessaria in contrasto con la volontà del defunto. L’art. 536 c.c. individua infatti alcuni soggetti (legittimari) -coniuge, figli, genitori del defunto- ai quali riserva una quota di eredità anche in presenza di una diversa volontà testamentaria.
A tali soggetti è garantito il diritto alla successione, laddove il testatore abbia disposto dei suoi beni a favore di terzi, escludendoli dalla successione o lasciando loro beni in misura inferiore alla riserva di legge.
In tali ipotesi, è riconosciuto al legittimario il diritto di impugnare la disposizione testamentaria lesiva in sede giudiziale (azione di riduzione) allo scopo di veder reintegrata la quota di eredità che la legge gli riserva (legittima) ed ottenere la restituzione all’asse ereditario dei beni assegnati in violazione della riserva. Ma vi è di più. Laddove il defunto avesse durante la propria vita fatto donazioni a favore di terzi, se lesive della legittima, queste potrebbero essere impugnate. Per essere più chiari: se in vita dono parte del mio patrimonio e non lascio alla mia morte beni sufficienti ad integrare la quota che la legge riserva ai miei legittimari, questi potranno aggredire le donazioni dopo la mia morte.
Il rischio di una futura impugnazione degli atti di donazione compiuti in vita dal defunto finisce con il rallentare la libera circolazione dei beni di provenienza donativa, in quanto trattasi di provenienze insicure poiché potrebbero essere impugnate dal legittimario leso.
Sembra che, nel nostro sistema, l’idea di garantire la conservazione del patrimonio ereditario all’interno della famiglia sia talmente forte da rendere sacrificabile il diritto del singolo a poter disporre dei propri beni in punto di morte come meglio ritiene. Eppure, questa volontà, proprio perché espressa in punto di morte, perché ultima, non dovrebbe essere maggiormente tutelata? Quanto sopra merita una riflessione, non solo giuridica ma anche etica e sociale. Viviamo in una società che si muove sempre più verso il riconoscimento di un modello di famiglia alternativo a quello tradizionale (fondato sul matrimonio), che ha dato dignità alle unioni di fatto, prevedendo adeguati strumenti di tutela.
Sebbene non spetti agli operatori del diritto esprimere giudizi in ordine alla meritevolezza di un interesse piuttosto che di un altro e spetti agli organi dello Stato il difficile compito di recepire l’evoluzione dei costumi e le istanze del comune sentire sociale, dettando norme in grado di garantire il bene collettivo, tuttavia non si può non riconoscere -nella conservazione all’interno del nostro ordinamento dell’istituto della “riserva”- la tendenza del legislatore a non vedere modificata tutta una parte dell’impianto normativo, volta a conservare ai componenti della famiglia “un posto in prima classe”.
