Tutti contro Von der Leyen, “Ursula da Trump come Cappuccetto rosso col lupo”. Conte, Renzi e Calenda: dal pretesto economico nasce l’operazione politica

L’Europa, sotto i colpi della crisi dei dazi e delle tensioni con Washington, comincia a scricchiolare proprio lì dove non dovrebbe: sui suoi fondamentali. Sul principio di delega fiduciaria a una leadership unitaria, rappresentata da Ursula von der Leyen, cui gli Stati membri hanno affidato negli ultimi cinque anni una funzione di coordinamento e sintesi politica. Ma quella delega oggi mostra tutte le sue crepe: non piace a tutti, né a tutti i Paesi, né — e qui il nodo diventa politico — a tutti i partiti. E infatti in Italia, le opposizioni — da Renzi a Conte, da Calenda al Pd — mettono nel mirino proprio la presidente della Commissione. Il casus belli è l’accordo commerciale con gli Stati Uniti, che porta con sé dazi fino al 15% sul Made in Italy, in settori strategici come moda e agroalimentare. Ma dietro il pretesto economico si cela una resa dei conti politica.

Il ministro Giorgetti aveva ammonito: dazi oltre il 10% sarebbero insostenibili. Ora quella soglia è stata superata. Vinicio Peluffo (Pd) chiede conto in Parlamento: «Il governo venga a spiegare come intende evitare una manovra correttiva». Simona Bonafè denuncia una Caporetto dell’export. Antonio Misiani grida alla «resa senza condizioni». Ma tutti gli strali, alla fine, convergono su von der Leyen.

Matteo Renzi sfodera la metafora più feroce: «Mandare Ursula a trattare con Trump è come mandare Cappuccetto Rosso a dialogare con il lupo». E accusa: «Un’algida burocrate, senza visione, che ha prima affondato la manifattura con il Green Deal e ora le dà il colpo di grazia». Conte rincara la dose: «Un duello finito con due sconfitti, l’Europa e Giorgia Meloni. Altro che ponte con gli Usa: è una disfatta. 23 miliardi di export in meno, 100mila posti di lavoro a rischio». E attacca ancora: «Meloni si è occupata di copertine mentre noi proponevamo tagli all’Irpef. Il governo e la Commissione hanno agito in ossequiosa sudditanza». E poi il colpo finale: «Più spese militari, più gas americano, più bollette. E un’Europa che resta con un pugno di mosche». Da Azione, Carlo Calenda sferza: «Von der Leyen non ha la statura per rappresentare l’Unione». Nicola Fratoianni parla di «disastro sociale e ambientale». Tutti in coro. Ma non è un caso di convergenza fortuita: è un’operazione politica.

Perché attaccare la Commissione oggi significa minare la sua legittimazione futura, proprio alla vigilia della nuova legislatura europea. E così, paradossalmente, le forze che fino a ieri difendevano l’architettura europea finiscono per indebolirla. Il fuoco amico di Pd, M5S, IV e Azione rischia di consegnare a Giorgia Meloni il ruolo di garante della nuova Europa, rafforzando un asse Ppe–Ecr che, nella logica dei rapporti di forza, si configura già oggi come l’unico vero perno stabile per i prossimi anni.

Meloni — inizialmente lontana da Bruxelles, sospettata e isolata — sta capitalizzando tutto: la debolezza della Commissione, la frammentazione delle sinistre, la guerra intestina tra chi dovrebbe difendere l’europeismo e invece spara nel mucchio. Alla fine, è proprio l’attacco continuo a von der Leyen a legittimare il passaggio di testimone: l’Europa come la conoscevamo finisce qui, e l’Europa del nuovo asse Ppe-Ecr nasce dalle sue ceneri, con Meloni nella parte che fu di Merkel. Chi pensava di indebolire la premier con l’affaire dazi rischia di averle spianato la strada nel grande gioco continentale. A Bruxelles, come sempre, vince chi resta in piedi quando tutti hanno finito di sparare.