L'editoriale
Ucraina e Italia, il lavoro del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN). Pace non è resa
All’improvviso l’Italia ha scoperto che 110 attivisti erano in Ucraina con il MEAN, Movimento Europeo di Azione Nonviolenta: molti lo hanno saputo solo dopo l’attacco russo che ha sfiorato il nostro treno per Kharkiv. Eppure è la quattordicesima missione dal 2022, preparata per mesi con la società civile ucraina e progetti concreti nati dall’incontro tra i loro bisogni e i nostri mondi vitali.
Il punto è semplice: gli ucraini combattono anche per noi. Aiutarli significa difendere libertà e democrazia qui, non solo lì. In Italia domina un cinismo comodo: scambiamo la pace con il desiderio di essere “lasciati in pace”, predichiamo accordi astratti e deridiamo chi resiste. Anzi gli addossiamo “il rischio di portarci in guerra”. Ma la pace si costruisce stando accanto alle vittime, con presenza e responsabilità. Il MEAN, è nato all’indomani dell’invasione russa del febbraio 2022, con Angelo Moretti, Riccardo Bonacina, Marianella Sclavi e il sottoscritto, lavora così. Tra gruppi dirigenti deboli e informazione mediocre, l’Italia è terreno fragile per accogliere e replicare la disinformazione che sedimentano l’indignazione selettiva: alcune ingiustizie ci toccano, altre no. Eppure in Russia sono stati deportati oltre 20mila bambini ucraini.
Maidan 2014 è, in fondo, la replica di Budapest ’56: anche allora c’erano intellettualoidi che vedevano complotti. Essere europeisti significa ricordare Imre Nagy e Alexander Dubček, e la radiazione de “il manifesto” dal PCI nel 1969 per la sua libertà di giudizio proprio contro quelle invasioni. Oggi c’è chi considera “di sinistra” la simpatia per i regimi: eppure il curriculum imperialista di Putin parla chiaro, da Grozny alla Georgia, dalla Crimea e il Donbass alla Siria, fino all’invasione del 2022. Per questo non basta la retorica chi pensa che sia sufficiente parlare di pace e issare alcuni vessilli per costruire la pace vera, giusta e duratura: accanto alla deterrenza servono istituzioni internazionali veramente terze e i Corpi civili di pace, capaci di prevenire, accompagnare e ricostruire.
La società civile ucraina è la retrovia della resistenza. Nella prima metà di ottobre la Russia ha lanciato migliaia di droni e missili contro civili e infrastrutture vitali: senza contraerea sarebbe ogni giorno una strage. A Kharkiv, il rettore ci ha detto: “Siamo diventati diffidenti nei confronti dei ‘pacifisti’; qui, dal primo all’ultimo, siamo patrioti”. Gli ho risposto che anche in Italia chiamavamo ‘patrioti’ i nostri partigiani. Come diceva Günther Anders, dato che “il mondo ci è fornito in casa, non ne andiamo alla scoperta, rimaniamo privi di esperienza”. E il privilegio di non vivere la guerra da 80 anni ci fa dimenticare come ce ne liberammo. Inesperienza che ci fa considerare la libertà e la democrazia e la stessa Pace, come valori e condizioni scontati, per cui non sia necessario battersi e mobilitarsi. Costruire la pace significa assumere il rischio della prossimità, rompere i binarismi tra pacifismo totale e guerrafondaio che infesta ogni talk tv: difendere chi resiste, disinnescare le menzogne, ridare voce a chi lotta per la libertà. Una scelta adulta, che unisce tutta la sinistra europea.
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