Un atto di giustizia per Scerbanenco, un atto d’amore per Milano

«Insomma, caduti i veti ideologici, le pregiudiziali dei puristi e lo snobismo degli intellettuali, Milano farebbe un gran gesto nel riconoscere la grandezza di Scerbanenco. Anche perché, parafrasando lo scrittore, l’indifferenza è “una forma di sordida e pericolosa idiozia”». Di solito non si inizia una recensione con la frase finale del libro recensito, però stavolta è utile per dare il senso dell’operazione compiuta da Alessandro Trocino, bravissimo giornalista del Corriere della Sera, con questo “Scerbanenco a Milano – Il padre del noir italiano” (Paesi editore), piccolo ma gran libro su Giorgio Scerbanenco, il più grande giallista italiano – ma la definizione gli va stretta, lui è stato un grande scrittore e punto.

Il libro è dunque un atto di giustizia per Scerbanenco e un atto d’amore per Milano, la città dove visse (ma era nato a Kiev) e di cui descrisse quelle minuzie emblematiche dello scorrere del tempo: dalla Milano del dopoguerra a quella in bianco e nero de “La notte” di Antonioni fino alle soglie dei Settanta. Scrive Trocino: «La Milano di Scerbanenco non è innocente. È un fondo teatrale, un coro greco, ma è anche protagonista, è spettatrice distante ma complice, luogo passivo di crimini feroci ma anche generatrice attiva di disagio, una città frenetica che vediamo scorrere in camera-car dalle auto in fuga. Una calamita del male, assediata dalla nebbia e da un presagio di sventura, con un cielo grigio che promette nubifragi ma che ogni tanto offre qualche raggio di sole, mai abbastanza caldo, sempre effimero, destinato a dissolversi alla prima raffica di mitra».

Quel torno di tempo bellissimo, in bianco e nero, di una città ancora operaia e già terziarizzata, intellettuale e popolare, lavoratrice ma con i banditi a Milano, appunto. Lui scrive tantissimo, un centinaio di romanzi e una marea di racconti. Non si può non aver letto “Venere privata“. La sua lingua è moderna con un retrogusto di sapienza letteraria antica.

Quando se ne andò, un mese e mezzo prima di Piazza Fontana, Indro Montanelli scrisse: «Giorgio Scerbanenco è morto… Non lo vedevo da venticinque anni, da quando eravamo rifugiati in Svizzera. Ma se non proprio di dolore, provo una trafittura di rimorso. Forse sono il solo, o comunque uno dei pochi a essermi accorto che Scerbanenco valeva molto di più della quotazione, cioè della non quotazione che la critica gli assegnava nella borsa dei valori letterari. Come costruttore di racconti non era da meno di Moravia, e in quelli polizieschi era sul livello di Simenon. Eppure, non l’ho mai detto, non ho mai mosso un dito né speso una parola per riscattarlo dall’avvilente condizione di romanziere da rotocalco. E lui non me lo ha mai chiesto. È uno dei pochi autori che non mi hanno mai mandato i suoi libri né sollecitato una recensione».

Era così: un uomo appartato con se stesso. Successo ne ha avuto, certo, non accompagnato dal giusto riconoscimento. Forse troppo “milanese“? Può essere. Il successo si fabbricava a Cinecittà, a via Veneto, alla Rai, insomma a Roma e Milano, nella sua grandezza morale, era lontana. Milano! Scrive Scerbanenco ne “I milanesi ammazzano al sabato”: «Oggi i delinquenti non hanno più alcun pudore, alcuna paura. Parlano tranquillamente in trattoria, in mezzo alla gente, con gli amici e le loro baldracche, che la mattina dopo andranno ad ammazzare la mamma e la mattina dopo, infatti, l’ammazzano, e la gente che ascolta fa finta di non aver sentito». I milanesi ammazzano al sabato perché gli altri giorni vanno a laurà o comunque hanno da fare: c’è qualcosa di più geniale?