L’Università ebraica di Gerusalemme compie 100 anni, e li porta bene. La foto di Einstein con lo sguardo sognante, che gira in bici per il campus, ti segue e ti incoraggia amichevolmente. Dalla terrazza dell’ateneo è possibile guardare in lontananza il luogo più basso del pianeta. La città di Gerusalemme si affaccia sul deserto. Ma il deserto, con il suo silenzio, non è mai stato concepito come assenza totale. Dal midbar (deserto) viene davar, la parola che consola e restituisce un senso al dolore. L’Università, scrisse Freud nel suo toccante messaggio, «è il luogo in cui si insegna il sapere al di sopra di ogni differenza di religione e di nazionalità», in cui gli esseri umani «apprendono fino a che punto può spingersi la loro comprensione del mondo», una «nobile testimonianza del grado di sviluppo cui il nostro popolo è faticosamente pervenuto in duemila anni di traversie sfortunate».
Nonostante i laceranti conflitti che scuotono la regione, l’Università non è mai venuta meno all’appello di Freud. Se non fosse per la follia che dilaga verrebbe da ridere amaramente che ci siano fisici, psicologi e purtroppo anche psicoanalisti che vogliono porre fine a ogni forma di collaborazione con un ateneo in cui il ruolo degli accademici italiani – espulsi dalle Università italiane dopo le Leggi razziali – è stato importante. Giusto per citare alcuni nomi da ricordare: Giulio Racah, fisico espulso dall’Università di Pisa, uno dei padri della fisica israeliana; Guido Tedeschi, giurista dell’Università di Siena a cui si deve lo sviluppo del pensiero giuridico in Israele. Quando Ben Gurion gli chiese di assumere la presidenza dell’Alta Corte, Tedeschi rispose che per lui era più importante formare dei giuristi di qualità. E poi ci sono l’anatomopatologo Salomone Enrico Emilio Franco; Roberto Bachi, statistico e demografo; Guido Mendes, tisiologo; Umberto Cassuto, orientalista; Enzo Bonaventura, psicologo sperimentale e pioniere della psicoanalisi italiana, che morì assassinato insieme ad altre 68 persone in un agguato mortale nell’aprile 1948. Tre generazioni di studiosi uccisi in un solo giorno.
Per non parlare di Enzo Sereni (fratello di Emilio), che fondò un kibbutz e non si rassegnò mai, come tanti, all’idea che non fosse possibile costruire un rapporto di convivenza con il mondo arabo e islamico. Sul finire della guerra, Enzo Sereni, che il Comune di Roma ha deciso di ricordare con una via, si fece paracadutare in Italia per unirsi alla lotta partigiana e portare aiuto agli ebrei braccati dai nazisti. La storia dell’Università ebraica è anche un pezzo di storia italiana, da riscoprire come tale per gettare un ponte tra un passato che non passa e un futuro possibile di convivenza.
