Università italiana flessibile e resiliente: la qualità batte il virus

Nonostante la pandemia che ha chiuso le aule e ha spinto docenti e studenti verso la didattica virtuale, nel corso del 2020 l’Università italiana è riuscita a erogare lo stesso numero di ore di lezione, a svolgere lo stesso numero di esami e a produrre lo stesso numero di laureati del 2019. Le immatricolazioni di nuovi studenti sono addirittura cresciute. Con un aumento del 9% nel sistema pubblico e del 7% negli atenei privati.

L’incremento maggiore si registra al Sud: +6% con 8mila immatricolazioni in più. Saldo attivo anche al Nord, con un +5,5% (pari a 10mila nuovi iscritti, numero maggiore in valori assoluti), e al Centro, con un +4% (pari a 5mila immatricolazioni in più). A dispetto del coronavirus, insomma, il sistema ha dato prova di resilienza, flessibilità e spirito di sacrificio, adattandosi alla nuova realtà. Le policy adottate dal governo e dal ministero competente – la no tax area e gli investimenti per assunzioni e borse di studio – hanno fatto il resto. È quello che emerge dalla ricerca “L’Italia e la sua reputazione: l’Università” condotta dal think tank ItaliaDecide con Intesa Sanpaolo e presentata con la Luiss. Basandosi sui ranking internazionali disponibili, lo studio illustra una situazione solo apparentemente contraddittoria: nel 2020 l’Italia continua a non avere università tra le prime 100 livello globale, ma posiziona tra le prime 500 – e, ancor più, tra le prime mille – un numero di università confrontabile con Francia, Germania e Cina.

Tuttavia, normalizzando i dati dei ranking sul totale di università presenti in ogni Paese, l’Italia supera tutti, incluso il Regno Unito, per numero di atenei tra i primi mille, ovvero nel migliore 5% dell’intero sistema universitario mondiale. In pratica, oltre il 40% delle istituzioni universitarie italiane si colloca tra le Top1000: livello nel quale Francia, Cina e Stati Uniti posizionano meno del 10% dei loro atenei. Secondo Luciano Violante, presidente onorario di ItaliaDecide, «la ricerca spiega un paradosso: come mai le università italiane non sono tra le prime al mondo eppure i nostri laureati occupano in tutto il mondo e nelle più diverse discipline posti di altissima responsabilità? Probabilmente perché non solo il sistema nel suo complesso è migliore dei singoli atenei, ma anche perché in molte università ci sono specifici settori di eccellenza». E conclude: «bisogna abbattere il complesso dell’autodenigrazione, anche perché attiva atteggiamenti deresponsabilizzanti: se nulla funziona è evidente che nessuno si impegna».

Ma l’impegno delle istituzioni resta necessario. La ricerca avverte infatti che, per salire nei ranking e aumentare l’attrattività internazionale, bisogna incrementare gli investimenti, intervenire su politiche di reclutamento del personale accademico, migliorare la macchina amministrativa, collaborare con imprese e tra atenei per l’internazionalizzazione, e, infine, comunicare meglio a livello sistemico. «La formazione è la chiave per il futuro», ricorda Paola Severino, vicepresidente Luiss, specie di fronte ai cambiamenti provocati dalla pandemia. Pertanto, «bisogna puntare a un continuo miglioramento del sistema universitario per la creazione delle nuove figure professionali richieste», confrontandosi con la Pubblica Amministrazione e con il mondo delle imprese.

È proprio quello che chiede Gian Maria Gros-Pietro, Presidente di Intesa Sanpaolo, che ha sostenuto la ricerca: «entro il 2024 Intesa Sanpaolo assumerà 3.500 giovani. Servono competenze utili alle necessità della Banca dei prossimi anni, con un’attenzione agli equilibri di genere. Avere giovani preparati e un sistema formativo più internazionale e vicino al mondo del lavoro è fondamentale per la competitività del Paese e delle imprese». Ecco perché Intesa Sanpaolo sostiene 70 atenei italiani e alcuni stranieri, tra cui Oxford, con progetti di collaborazione volti «alla produzione e diffusione della conoscenza per una equa distribuzione della ricchezza».