Le università americane non potranno più usare la razza o l’etnia come fattore per ammettere gli studenti, ha deciso la Corte Suprema. Nel “Si&No” del Riformista diamo spazio alla riflessione sul tema: è giusta o no la decisione? Favorevole Paolo Guzzanti, giornalista. Contraria Ermelinda M. Campanim, Direttrice Stanford Florence.
Qui il commento di Ermelinda M. Campani.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, con 6 voti contro 3, ha appena preso una decisione che farà storia. Ha detto, in buona sostanza e in 236 pagine, che i college e le università non possono tener conto della razza nelle procedure di ammissione, nelle decisioni relative al conferimento di borse di studio, e nel reclutamento degli studenti. È la fine della cosiddetta “affirmative action”, la pratica che serviva a garantire corsie preferenziali per le minoranze e ad assicurare una certa diversità etnica negli atenei. Ed è un vero tsunami, anche se non del tutto inaspettato, per le università americane e per la società intera.
Nella fattispecie, la decisione della Corte dà torto a Harvard College e all’Università del North Carolina invocando la Equal Protection Clause, la clausola di parità di protezione del 14mo emendamento. E dà ragione alla Students for Fair Admissions che ha rappresentato le istanze di studenti asiatico-americani secondo i quali le pratiche di ammissione ai due college favorivano alcune etnie a scapito di tutte le altre. In sostanza, proprio il principio introdotto nel 1868 dopo la guerra civile americana per garantire i diritti civili e legali dei neri (e successivamente utilizzato per stigmatizzare altre forme di discriminazione, come quella basata sul genere, la nazionalità, la religione o l’orientamento sessuale) è stato applicato in una decisione giuridica che oggi gli afro-americani non li favorisce.
Cosa comporterà questa sentenza, almeno nell’immediato, è facile da capire. I numeri di studenti afro-americani, ispano-americani, nativi-americani diminuiranno drasticamente nelle aule degli atenei più prestigiosi perché sono i gruppi che statisticamente hanno minor accesso alle risorse che gli permettono di eccellere, e di ottenere i punteggi alti in test (come il SAT e l’ACT) che sono fondamentali per l’ammissione ai college più blasonati e competitivi. Si stima, a braccio, che 40-60% di studenti neri e 25-45% di ispanici che studiano attualmente nei college non sarebbero lì se non fosse stato per l’affirmative action.
La stesura della sentenza è a opera del giudice John Roberts, cattolico moderato, educato a Harvard e nominato alla suprema corte da George W. Bush. Scrive Roberts «Eliminare la discriminazione razziale significa eliminarla del tutto. Lo studente deve essere valutato come individuo, non sulla base della sua razza. Molte università ormai da troppo tempo hanno fatto l’esatto contrario». Con Roberts hanno votato tutti i giudici conservatori. Sonia Sotomayor ha commentato amaramente «La Corte ignora le conseguenze pericolose di un America la cui leadership non rispecchia la diversità del suo Popolo». I due giudici neri, Clarence Thomas (decano dei conservatori) e Ketanji Brown Jackson (nominata poco più di un anno fa da Joe Biden) si sono aspramente criticati. Entrambi contro la discriminazione, ciascuno su posizioni diametricalmente opposte all’altro. Lo specchio di un paese diviso.
Molti presidenti delle università, soprattutto quelle più prestigiose, si sono già affrettati a rassicurare che, nei limiti imposti dalla legge, faranno il massimo per continuare a sostenere le minoranze e a garantire la diversità nelle classi e sui campus universitari. Lee Bollinger, il presidente di Columbia University, ha bollato la decisione della Corte come «una tragedia» e ha aggiunto che ci aspettano 5 anni di caos prima che le università riescano a venire a capo del nuovo scenario legale. Il Presidente Biden dice «la decisione della corte è una grave delusione per tante persone, me compreso». Gli fanno eco gli Obama «una sentenza che ci spezza il cuore,” mentre Trump, nel suo solito stile, ha affermato “Questo è un grande giorno per l’America». Fin qui i fatti. Ora, un paio di considerazioni a margine e in ordine sparso.
– L’America sta imboccando una china che mette in discussione diritti che si davano per acquisiti e che sembravano delle “verità” inalienabili. Un anno fa l’aborto. Oggi anche l’affirmative action. Due mostri sacri della sinistra americana e delle battaglie civili. Due sentenze che riscrivono la storia del paese.
– L’idea dell’America come esempio di integrazione multi-razziale (il famoso crogiuolo) rischia di essere ormai solo un’idea.
– Posizioni politiche estreme chiamano reazioni politiche estreme. La polarizzazione che divide la società civile e la politica americana rischia di diventare incolmabile.
– Il voto degli americani ha un impatto anche sulla Corte Suprema i cui giudici rimangono lì a vita. Il Presidente americano, quando è chiamato a mettere nuovi giudici sugli scranni (a Trump ne dobbiamo 3), ha il potere di cambiare il destino del Paese per decenni a venire, e ben oltre la fine del suo mandato. È la longa manus dell’elezione del 2016 che ha cancellato l’affirmative action.
– Il 2024 ha due elezioni che si annunciano, pur ancora da lontano, come potenzialmente esplosive, una in Europa e una negli Stati Uniti. Teniamoci forte.
