Le università americane non potranno più usare la razza o l’etnia come fattore per ammettere gli studenti, ha deciso la Corte Suprema. Nel “Si&No” del Riformista diamo spazio alla riflessione sul tema: è giusta o no la decisione? Favorevole Paolo Guzzanti, giornalista. Contraria Ermelinda M. Campanim, Direttrice Stanford Florence.
Qui il commento di Paolo Guzzanti.
L’esperimento delle quote nelle università, detto affermative action, per dare più posti a studenti afroamericani e latinoamericani, era già fallito da un pezzo e la sentenza della Suprema Corte non ha fatto che riportare la situazione. Al punto di partenza: il colore della pelle e l’origine Latina non saranno più un titolo di preferenza per essere accolti nei colleges a scapito di studenti più meritevoli ma di pelle troppo chiara per competere. L’Affermative Action – hanno sentenziato i giudici della Corte Suprema con una maggioranza di sei a tre – è sia ingiusta che inutile: ingiusta perché penalizza e quindi divide secondo criteri razziali che in America si chiamano con disprezzo “stereotypes”; ed è totalmente illegale di fronte all’”Equal Protection Clause” che fa parte del Quattordicesimo Emendamento e vieta in modo tassativo qualsiasi privilegio o penalità basati sul colore della pelle o la discendenza etnica.
Adesso bisogna ricominciare tutto da capo e le Università sono nel panico perché devono costruire nuovi criteri con cui accogliere i formulari di richiesta di iscrizione nei colleges cercando modi surrettizi per reintrodurre i vantaggi per gli studenti neri o latinos, come privilegiare i codici postali di aree marginali. Il giudice John Roberts ha bocciato firmando la sentenza della Corte i criteri di ammissione ad università come Harvard e la University of North Carolina, scrivendo che “Il criterio delle quote è in contrasto con i fondamenti della Costituzione che vietano gli stereotipi razziali su cui si fondano i criteri di ammissione”.
Questa sentenza della Corte riguarda soltanto uno dei modi di intendere la affermative action e cioè quello dell’iscrizione ai college per consentire ai figli di minoranze svantaggiate di poter accedere all’università. La questione più precisamente riguarda le borse di studio, l’agognato “Grant”, che permette a studenti di qualsiasi colore e provenienza di seguire lo stesso corso di studi di chi può pagarsi la retta intera. Così è avvenuta una selezione alla rovescia: fra due studenti di colore diverso era obbligatorio scegliere quello del colore giusto, lasciando fuori quello che aveva ottenuto il miglior voto.
La situazione si era pienamente ribaltata da quando negli anni 90 si sono presentati nelle Università gli studenti asiatici: i molti vietnamiti fuggiti dal loro paese per la guerra e una ondata migratoria di indiani le cui famiglie eccellono nelle branche più ricercate della medicina. Seguono gli studenti cinesi, sia americani che della Cina popolare, cui si sono aggiunti – l’ho visto con i miei occhi a Boston – studenti iraniani, siriani, egiziani e delle repubbliche ex sovietiche.
La maggior parte di questi studenti ha riportato risultati e voti superiori a quelli non solo degli afroamericani e dei latini ma spesso degli stessi americani bianchi, tra i quali si sono dati molti casi di suicidio specialmente in New Jersey. Ciò che funziona di più dietro gli studenti asiatici che vincono tutte le borse di studio possibili e prendono i voti più alti, indirizzandosi quindi agli stipendi più alti offerti dalle aziende che tengono d’occhio gli studenti di qualità, sono le famiglie e le tradizioni. Uno studente asiatico americano non sa la vita dello studente americano qualsiasi: la sua famiglia decide tutto per lui o per lei, compreso il coniuge e l’età in cui avere figli, esigendo con la massima durezza disciplinare i voti più alti.
Ciò ha spiazzato l’intera comunità universitaria americana e del mondo mettendo in evidenza quanto fosse puerile l’idea di garantire comunque biglietti d’ingresso privilegiati per minoranze etniche, che poi non erano in grado di garantire in modo analogo l’uscita verso il lavoro e gli alti stipendi. La decisione della Corte Suprema ha provocato naturalmente molte proteste perché si è creata di fatto un’area di privilegi razziali che tuttavia non hanno saputo impedire la crescita verticale di privilegi dovuti all’altissimo profitto degli studenti. La Corte ha considerato anche altri fallimenti del sistema della live action che però non sono compresi in questa sentenza come quello degli affitti privilegiati nello stesso stato sì secondo etnia, cultura, lingua religione e colore della pelle. Quello che si proponeva di realizzare un utopistico grande livello di integrazione ha portato invece odii profondi, micro-violenza e ulteriore ghettizzazione.
