Nel suo ultimo libro Il conte di Racalmuto (Vallecchi Firenze, pp.112, euro 12), il palermitano Vito Catalano, classe 1979, in una nota finale spiega esattamente la fonte dell’ispirazione della sua storia, che è duplice: libresca, per così dire, perché trae spunto dagli elementi raccontati attorno alla vicenda di Girolamo II del Carretto, conte di Racalmuto, da suo nonno Leonardo Sciascia in Morte dell’Inquisitore e Le parrocchie di Regalpetra; intima, di un sentimento familiare, perché certi racconti, di certi eventi e personaggi, hanno abitato la sua infanzia e dai ricordi si sono trasferiti sulla pagina. Mi pare che questa duplice ispirazione irradii la struttura, l’andamento e la voce di un racconto, semplice e affascinante allo stesso tempo. La storia è breve: la contessa di Racalmuto è infelice a causa delle infedeltà e delle violenze del suo consorte, e decide di intraprendere una relazione d’amore clandestina e rischiosissima col pittore Pietro D’Asaro (il quale fu detto il Monocolo di Racalmuto). Siamo nel pieno Seicento siciliano, a Racalmuto tutti vivono nella paura delle ritorsioni del conte e un principio di uguaglianza sinistro e violento regge il contado, ed è semplice: nessuno, qualche che ne sia censo ed estrazione, è immune dal potere arbitrario del Conte, tranne che il Conte stesso, che però risulterà soggetto alla potestà della libertà individuale.
Ne esce un racconto di estrema violenza, ma col tono e il colore della fiaba, del racconto remoto di vicende passate ma che, con angoscia rassegnata, ripensiamo come parti del nostro presente: così, attraverso i molteplici brevi ritratti dei quadri della natura (alberi, uccelli, temperature estenuanti) si eleva, per contrasto, la lamentazione attorno a una sorte di sopruso che pare già scritta senza scampo e per sempre: basti pensare alla sorte del monaco agostiniano che, una notte in taverna, beve e parla contro il signore di Racalmuto, che ama la libertà ma ha terrore della morte, sicché quando, nel pieno della notte, verrà inseguito dalla perfida strategia omicida degli sgherri del conte, andrà fuggendo per le vie del paese (e nessuno gli aprirà l’uscio di casa per salvarlo), oppure alla scena del piccolo cacciatore che osa approvvigionarsi di nascosto della selvaggina che vive nelle terre di proprietà del conte. La violenza segna tutto e tutti, anche gli innocenti, come il giovane promesso sposo Antonio De Vita, una sorta di anti-Renzo e, d’altra parte, frate Evodio sarà una sorta di anti-fra Cristoforo: il frate riuscirà a convincere il giovane della possibilità salvifica, l’unica, che sta, talvolta, nella violenza omicida. E non dimentichiamo che nel diritto naturale la reazione al potere ingiusto e violento è essa stessa reputata lecita pur nell’atto di sangue. Grazie a questo, la Contessa salverà infine vita, amore e libertà.
Ecco, in questa storia che ha la grazia per incantare qualunque lettore, si staglia quella duplice ispirazione: perché nella scrittura di Catalano troviamo non solo il mondo di Sciascia, ma un concentrato di figure siciliane, e perché in questo racconto risuona la voce avvilita dall’ingiustizia del potere eppure animata dalla convinzione che del potere iniquo noi, sempre, possiamo e dobbiamo liberarci. Rischiando tutto.
