Vivere in funzione della politica, storie di amicizia e di militanza (e di una malattia infantile che ci ha segnati)

ANNI SETTANTA TO CAMPAGNA ELETTORALE MANIFESTI ELETTORALI MANIFESTO ELETTORALE PARTITO COMUNISTA ITALIANO PCI

Caro Claudio,
dopo il salto nell’attualità della volta scorsa, inevitabile perché i pensieri e i ricordi si sovrappongono e quasi si confondono, torno alla mia “educazione sentimentale”, propria di un neo iscritto. Siamo nel 1973, in Italia c’è il Governo Andreotti-Malagodi, governo di centro destra che durò poco, ma diede spazio all’opposizione del PCI.

Divenni un militante quasi a tempo pieno. Certo studiavo, ancora mi dovevo laureare, lavoravo anche dando ripetizioni in una scuola serale, una di quelle nate con le 150 ore, provvedimento a favore dei lavoratori che volessero acquisire la licenza media, ma tutto il resto del tempo lo trascorrevo in sezione. Volantini, attacchinaggio di manifesti, riunioni, festival dell’Unità da organizzare e relativa diffusione dell’Unità la domenica mattina. Anziché starmene a letto con la mia fidanzatina, la domenica mi alzavo pronto per cominciare a suonare i campanelli dei caseggiati popolari del centro storico, zona Porta romana, allora ce n’erano ancora tanti, le vecchie case a ringhiera, oggi tutte trasformate in residenze di qualità. Oppure davanti al Policlinico o alla Clinica Mangiagalli, per piazzare qualche copia al personale che iniziava o terminava il servizio. Poi la domenica, dopo la diffusione, ci si trovava in sezione a fare i conteggi e consegnare gli incassi. E si andava a mangiare tutti insieme in trattoria.

Militanza e amicizia si fondevano in una unica esperienza. C’era il piacere di pensare di stare facendo una cosa utile, volevamo cambiare l’Italia in meglio, ma eravamo anche una comunità in cui si mescolavano amicizie, amori più o meno passeggeri, aiuto reciproco. La sezione era un luogo di lavoro politico, ma anche di incontro, di chiacchiere sulla vita e sul nostro futuro. La mia era una sezione “ben frequentata”. Con un mix di personaggi e di ceti sociali a cui solo una situazione straordinaria come quella di quegli anni poteva dare vita. Molto ceto medio, genitori democratici, impiegati e operai, diversi intellettuali, personaggi come Giò Pomodoro, scultore di fama che ci ha lasciati qualche giorno fa, e Miuccia Prada, che ancora non era “la Miuccia” creatrice di un’impresa di enorme successo, ma era l’animatrice di un circolo dell’UDI (Unione Donne Italiane).

Affittammo un seminterrato dove Miuccia organizzava corsi di ginnastica per le donne del quartiere. Vestiva Saint Laurent e procurava biglietti per la Scala, ma il lunedì mattina lavava le pentole sporche del festival dell’Unità di sezione. E come lei tanti altri professionisti affermati o semplici operai che dedicavano il loro tempo libero al Partito. Anche le vacanze si facevano insieme, magari a casa di qualcuno più ricco che apriva le porte di una residenza al mare o in qualche altro luogo di villeggiatura. Insomma c’era la politica, ma eravamo anche una comunità. Le nostre vite poi si sarebbero disperse, ognuno per la sua strada o come dice il grande Vasco “ognuno a rincorrere i suoi guai, ognuno col suo viaggio, ognuno diverso e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi”. Ma in quel momento c’era quel fenomeno che Alberoni ha così ben descritto nel suo libro sullo Stato nascente: una sorta di innamoramento collettivo che ci portava a vivere ogni cosa in connessione con altri, con cui condividevamo un progetto politico, ma anche lo travalicava. Credo che i vecchi iscritti ci guardassero come delle bestie un po’ strane. Loro tenevano famiglia, un lavoro, un mutuo da pagare e dei figli di cui occuparsi. A noi sembrava che questa vita collettiva e la politica fossero le uniche cose che contavano.

P.s. Mentre scrivo queste righe suonano alla porta e mi trovo di fronte un ragazzo molto gentile che mi vuole vendere “Lotta comunista”. Quasi quasi glielo avrei comprato per semplice tenerezza, poi mi sono domandato che cosa lo animi al punto tale da girare in un condominio di Trastevere alle 8 di sera, sperando di vendere qualche copia di un giornale fuori dal tempo. La prossima volta glielo chiedo, giuro.

***

Caro Chicco,
ma sai che anche io ho incrociato qualche giorno fa una ragazza che diffondeva “Lotta comunista” nel bel mezzo di via Toledo? Quando mi ha detto: “Compagno, vuoi dare un piccolo contributo alla rivoluzione?” anche io ho pensato per un momento di fermarmi, di prendere il giornale, di chiederle che cosa le ruminava nella testa, poi ho lasciato perdere. Il punto è che la nostra malattia infantile ci ha segnati di brutto e – malgrado il cinismo inevitabilmente accumulato nelle stanze di vari poteri che abbiamo frequentato – continuiamo a subire la fascinazione del militare per qualsivoglia causa, anche per obiettivi del tutto scollegati dalla realtà. E anche se avremmo dovuto imparare che proprio la militanza in sé porta inevitabilmente ad arroccarsi, a chiudersi dentro il proprio guscio, a non vedere le ragioni degli altri. Il PCI questo lo sapeva bene e, nella sua grande sapienza, dosava con attenzione il presidio dei principi cardine da cui non fuoriuscire mai e la cura verso l’altro da noi, quello che non faceva parte della Chiesa.

Nella stagione di cui ora stiamo parlando, quella dei primi anni ‘70, tu ricordi quanto me che cosa successe quando, nell’autunno del 1973, Berlinguer pubblicò i famosi tre articoli su Rinascita, partendo dal golpe in Cile contro Salvador Allende. Quegli articoli ci dicevano addirittura che noi avremmo dovuto allearci con il nostro nemico storico, la DC. Sì, si facevano mille distinguo, si diceva “non con questa DC”, si auspicava un cambio generale di linea dei democristiani, si diceva che si trattava di unire le masse cattoliche e comuniste (anche socialiste e laiche certo, ma senza particolare enfasi…). Insomma mille prudenze per giustificare quella inaudita apertura, che fu grande e importante, e provocò – immagino anche dalle tue parti – delle discussioni interminabili. I tre articoli, usciti una settimana dopo l’altra, venivano compulsati, letti e riletti, sottolineati in sezione ogni sera. Ricordi certamente che fu l’ultimo, il terzo, a provocare il soprassalto in tutti noi, e in particolare quelle poche righe che chiudevano l’articolo: “Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (…), questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra” ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”.

A quel punto gli altri due articoli, centrati il primo su “Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni”, il secondo su “Via democratica e violenza reazionaria” persero ogni valore nel dibattito, anche se – nella logica della cultura del PCI – erano la lunghissima, necessaria, pedagogica premessa a quella frase chiave, era il ragionamento storicista che spiegava al popolo comunista perché si arrivava a quella conclusione. E ricordo bene come in sezione ci si divise nell’autunno del ‘73 – con civiltà, grande civiltà – tra chi dava molta più importanza al contesto generale da cui scaturiva la proposta conclusiva, e chi invece mugugnava brontolando: “Va bene tutta l’analisi che volete, ma alla fine dobbiamo fare il governo con la DC?”.

Tornavano in sostanza allo scoperto le vecchie divisioni tra amendoliani e ingraiani, quelle dell’XI congresso del 1966, ma con tutte le varianti del caso. All’epoca – vado per sommi capi – era Amendola che pensava ad un’alternativa di sinistra, mentre Ingrao era fautore di un rapporto con le masse cattoliche. Ora gli schieramenti si confondevano ed emergeva la vera demarcazione che poi segnerà tutta la storia successiva del comunismo italiano. Quella tra chi pensava che prima o poi bisognava cercare di andare al governo, e chi invece non riusciva a vedere altra prospettiva se non quella di un’eterna opposizione.