Voci di donne per narrare lo spazio

Attivare i luoghi senza trasformarli in maniera invasiva, senza modificarne il paesaggio già pregno di storie e di storia. Questa la risposta che l’artista Claudia Losi, da anni concentrata sul rapporto tra uomo e paesaggio, ha dato alla chiamata fattale, nel 2018, dall’Associazione Jazzi – attiva sul territorio di Licusati nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano – per commissionarle un intervento performativo, curato da Katia Anguelova, nell’area del Monte Bulgheria.

Proprio quell’anno sono stati organizzati nei sentieri dell’area dei “laboratori camminati” con l’intento, da parte dell’artista, di conoscere il sito attraverso la guida di diversi ospiti locali ed esterni. Un’attività che ha dato vita a molteplici e diversi sguardi e letture dello stesso luogo. La ricerca artistica di Losi, da sempre incentrata sulla natura, le scienze, la storia e l’antropologia ha una dimensione narrativa che talvolta si avvale dell’uso della scrittura e del linguaggio, creando dinamiche di relazione e partecipazione comunitaria. Il medium in questo caso è stato la voce: l’attività ha avuto infatti, sin dall’inizio, una partecipazione collettiva che ha portato a un atto performativo in cui il canto e la presenza fisica, di trenta coriste esperte e non, hanno popolato quel paesaggio roccioso.

L’esperienza ha portato oggi a un innovativo progetto editoriale: Kunstverein Milano ha dato vita alla collana Passo chiama Passo che accoglierà i risultati di alcune performance site-specific, realizzate in diversi paesaggi naturali e urbani, unendo immagine, testo e suono nella pubblicazione combinata, di volta in volta, di un libro d’artista e di un vinile. Il rapporto tra voce, spazio e coralità al centro della ricerca di Losi sarà dunque protagonista del primo titolo della collana, Voce a vento. Sotto la cura di Katia Anguelova, i testi originali di Losi sono stati accompagnati da un vinile curato da Meike Clarelli, contenente otto tracce dove si ritrova l’espressione del canto corale e polifonico di trenta donne, tra cui Elena Bojkova, solista del coro Le Mystère des Voix Bulgares.

I laboratori camminati sono stati pensati per essere propedeutici alla realizzazione della performance, in che modo?

È stato il suono l’elemento forte che mi ha colpita durante le camminate. Durante il primo laboratorio ci trovavamo sul versante marittimo del Monte Bulgheria, privo di alberi anche per il tipo di uso che se n’è fatto nell’arco di secoli, in una sorta di anfiteatro naturale probabilmente di origine marino vulcanica che presenta pietre di carbonato di calcio di un bianco abbagliante e i libbani, erbe utilizzare per fare corde e reti per la pesca: un continuo scambio tra l’interno e l’esterno.

Dopo aver ascoltato come la voce viaggiava in questi luoghi trasportata dalle correnti aeree fortissime – si poteva sentire a stento la persona accanto, ma senza problemi chi si trovava a trenta metri di distanza – a un certo punto si è sentito il suono di un flauto da fondovalle. Il mio retropensiero era che si trattasse di una “voce femmina” ed è durato parecchio, dunque dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse a lavorare con il canto.

L’idea del canto è stata quindi primigenia?

Sì, anche l’installazione delle maniche a vento aveva molto a che fare con questa idea di voce che si espande, idealmente indirizzavano non solo l’aria ma anche la voce, mentre il riferimento visivo sono state le koi giapponesi. Mi viene in mente la “lingua madre” di Ugo Morelli: un paesaggio si compone anche delle tante parole depositate in un luogo da chi ci ha vissuto, da chi ci è morto, da chi ci è passato, i testi delle canzoni li ho costruiti così, come una mia piccola geografia personale scaturita anche dalle suggestioni di quei giorni. Dovevo affidare a qualcuno la traduzione dei miei testi in canzoni e le cose hanno preso forma a mano a mano, perché non avevo un’idea precisa di quale sarebbe stato il risultato.

Crede che la “voce femmina” che sentiva possa essere stata un primo sintomo della coralità femminile che ha poi preso parte alla performance?

Il caso ha voluto che incontrassi Meike Clarelli grazie ad un’amica. Meike ha una storia personale molto fitta e intensa, ha lavorato nelle carceri e nei centri antiviolenza dove l’ascolto del femminile è un punto identitario importante e lo si vede nel suo lavoro dove la voce corale aiuta a sostenere l’identità di coloro che vi partecipano, che non sono sole. Nonostante non potessi darle informazioni specifiche di cosa volevo, lei ha accettato con generosità e una forma di follia. Ci siamo fidate e affidate in maniera reciproca e il risultato è stato un movimento di quindici donne, di cui alcune professioniste, che hanno messo in musica i testi insieme a Davide Fasulo. Abbiamo chiesto di collaborare ad alcuni cori locali non professionisti e, comunicando a distanza, queste trenta donne si sono preparate per l’incontro.

Ha partecipato anche Elena Bojkova, solista del coro Le Mystère des voix bulgares, venendo da Sofia con un’incredibile cortesia e un timbro di voce unico, nonostante fosse una grande professionista ha percepito subito l’atmosfera rilassata, ha anche aiutato e dato consigli alle altre coriste.

Abbiamo fatto le prime prove e il coro era davvero eterogeneo, era commovente.

Abbiamo optato per una sola giornata performativa: qualche ora lungo uno specifico tragitto. I cori locali si trovavano alla fine, Maike ha aperto il canto camminando su una pendenza non semplice, accogliendo e raccogliendo le donne che si trovavano già lungo il percorso in piccoli gruppi.

Il pubblico ha seguito il coro probabilmente perdendo alcuni momenti per la difficoltà a tenere il passo.

Io e Katia ci siamo poi domandate come prolungare nel tempo l’“attimo” della performance e le maniche a vento erano una prima risposta. Sistemate su dei pali sono rimaste lì per tre mesi in quella zona estremamente ventosa, infatti alcune sono ridotte a brandelli. È chiaro che hanno svolto un ruolo di testimonianza per quei tre mesi soltanto. La misura della performance rimane a chi ha partecipato, neanche i video possono sostituire la presenza fisica.

Un insieme di voci si sono accorpate e hanno trovato la loro forza, si è creata una comunità temporanea che non ha voluto asserire niente, ma che ha avuto una forte presenza. Mi piace pensare alle figure femminili che amiamo, potentissime e non hanno o non avevano bisogno di urlare niente.

A proposito di figure femminili potenti, ascoltare i canti di Voci a Vento mi ha riportato subito ai racconti di mia nonna, una mondina cresciuta nell’Appennino piacentino. Durante la sua giovinezza ci si ritrovava la sera per fare filosso: sgranare la melica e cantare. Per melica in Appennino si intende il mais, ma gli antichi greci chiamavano così un componimento poetico musicato e intonato in coro o singolarmente. Un doppio significato davvero affascinante. Questo è un punto importante, tutto parte da una mia ossessione per il canto delle mondine perché anche mia nonna lo era. Al canto di lavoro femminile si era legata una mia passione che non sono mai riuscita a focalizzare, ho passato molto tempo in Scozia e in particolare mi sono imbattuta in questi canti tipici delle Highlands, le “waulking songs”. Alcune donne sedute intorno a un tavolo che follavano e battevano ritmicamente pezze di tweed lunghe metri e metri, appesantite da acqua e piscio. Il canto è terapeutico, aiuta la respirazione e a reggere il ritmo lavorativo.

Originariamente il coro Le Mystère des voix bulgares era formato da voci contadine che usavano il canto per questioni legate alla tradizione, ma anche per comunicare sulla lunga distanza durante il lavoro grazie alla potenza particolare delle loro voci. Così il canto di monda aiutava a regolare il fiato e dal punto di vista uditivo il paesaggio era fondamentale perché cantando chine sull’acqua delle risaie l’acqua fungeva da amplificatore naturale. Questa tradizione ritornerà anche in alcune delle canzoni del secondo volume di Passo chiama Passo.

Qual è il prossimo “passo”?

Il punto di queste esperienze è proprio l’essere lì, per questo volevamo crearne una nuova, non certo uguale, che prendesse in prestito le parole per suscitare quel tipo di emozione e di coinvolgimento che c’era stato. Il suono si può ripetere.

Insieme a Katia, Kunstverein Milano, Federica M. Bianchi per Snaporazverein_CH e con il supporto della Fondazione Shapdiz, abbiamo lavorato sulle tracce, ma non tutto quello che abbiamo registrato è poi servito per la pubblicazione, c’è stata una post-produzione. Oltre al disco in vinile è presente anche una raccolta di testi, lo considero un libro d’artista. Abbiamo voluto immaginare un discorso più ampio, da qui la pubblicazione di una collana legata a una modalità di esperire i luoghi, senza esaurirli ma raccontandoli e creando nuovi paesaggi in base a dove vengono ascoltati. La scelta dell’oggetto vinile è stata spontanea per l’immediata correlazione tra il solco del cammino nel terreno e quello inciso sul disco. Della collana Passo chiama passo, Voce a vento è il primo volume.

La volontà è quella di portare questa voce in luoghi diversi tra loro, di osservare come questa voce crea spazio intorno a sé e come poi serbi memoria di quanto avvenuto per trasformarla in una nuova esperienza corale. Perché è stato corale in tutti i sensi. Being there sarà il prossimo passo organizzato insieme alla Ikon Gallery, in parte a Birmingham e in parte a Venezia, due luoghi simili e profondamente diversi.

*studiosa di Beni Artistici e dello Spettacolo