11 settembre 1973: 50 anni dopo il golpe l’insegnamento del Cile

Era l’11 settembre 1973. Cinquanta anni dopo il colpo di Stato che a Santiago del Cile rovesciò improvvisamente il governo di Salvador Allende, abbiamo incontrato l’ambasciatore del Cile a Roma, Ennio Vivaldi. Il cognome tradisce origini italiane: i nonni liguri, di Sanremo. E suo padre ha studiato a Firenze. L’ambasciatore Vivaldi ha avuto tre vite: prima medico chirurgo, poi a lungo Rettore dell’Università del Cile, ora abbraccia la carriera diplomatica con questo primo incarico in Italia.

Che successe l’11 settembre?

«Ci fu un colpo di Stato inimmaginabile. Un golpe che sorprese il mondo e i cileni per primi. L’obiettivo era quello di rovesciare la volontà democratica e interrompere il processo di riforme che aveva iniziato il presidente democraticamente eletto, Salvador Allende».

Inimmaginabile per molti, ma non per tutti.

«Guardi, le dirò una cosa: anche chi auspicava un “raddrizzamento” in senso moderato, seppur guidato dai militari in una fase iniziale, pensava a una misura straordinaria e provvisoria. Il golpe diede invece luogo a una dittatura efferata, violentissima e dalla durata prolungata, com’è noto. Quasi 17 anni di regime militare, responsabile di sequestri e torture, assassini mirati e di massa. Nessuno, né in Cile né nel mondo, avrebbe mai potuto aspettarsi una cosa del genere».

Salvador Allende si è suicidato, quella maledetta mattina al Palazzo della Moneda, per non consegnarsi vivo?

«C’è la testimonianza di un medico, che sembra attendibile, che descrive gli ultimi minuti della sua vita. Allende possedeva una pistola semiautomatica e si era chiuso nel suo ufficio prima che, in seguito al bombardamento aereo, i militari di Pinochet riuscissero a entrare. È una possibilità reale che non abbia voluto consegnarsi vivo ai golpisti».

Gli autori del golpe soffiarono sul fuoco della paura. Allende voleva portare il socialismo in Cile?

«Ci fu chi dubitò della sincerità delle intenzioni di Allende. Io non ne ho mai potuto dubitare. Quello che posso testimoniare è che voleva per il Cile un sistema socialista democratico basato sulla giustizia sociale. E che una larga maggioranza dei cileni aveva votato per l’Unione Popolare (la coalizione di tutte le sinistre, ndr.)».

A monte, prima della rottura che spinse settori dell’esercito a muoversi, c’era una mancanza di dialogo nel Paese? Il Cile diviso tra nazionalisti di destra e populisti di sinistra arrivò lacerato a quel settembre 1973?

«C’era una divaricazione crescente tra ceti sociali, tra credi politici, tra fazioni opposte. Una polarizzazione ideologica tra idee estreme che a un certo punto trasformarono i cittadini in avversari, e poi gli avversari in nemici da abbattere. Se si perde qualsiasi tipo di fiducia nell’avversario, se non si concede il minimo credito alle sue intenzioni, si creano le premesse per quella crisi di civiltà che può portare alla guerra civile, ai colpi di Stato e dunque alla fine della democrazia. Ci fu però chi lavorò a quel dialogo: credo che a questo proposito vada ricordato il ruolo di mediazione del Cardinal Silva Henriquez e di tutta la Chiesa cattolica. Perché se i golpisti si richiamavano ai valori della Chiesa, questa non scese mai troppo a compromessi con loro».

Come andò evolvendo la percezione degli Stati Uniti sul golpe dell’11 settembre?

«È una buona domanda, credo che però debba porla ad un diplomatico americano, non a me. Io posso dirle che c’è molto materiale in mano agli storici, molti documenti che parlano di influenze internazionali in quel frangente. Gli Stati Uniti cambiarono comunque il loro atteggiamento perché come le dicevo il mondo si accorse presto che la situazione, con la dittatura sanguinaria del generale Augusto Pinochet, era sfuggita di mano. In effetti furono gli Stati Uniti a premere perché si tenesse, con certe regole, il referendum che consentì di mettere fine a quella tragedia nel 1990».

Durante la dittatura, l’Ambasciata italiana giocò un ruolo. Provando a salvare chi cercava di fuggire.

«È così. Giocò un ruolo importantissimo, come racconta l’ambasciatore italiano allora a Santiago, Barbarani in un libro. Moltissime persone saltavano il muro di cinta dell’ambasciata e vennero ospitate e protette dalle autorità italiane. E in moltissimi, nel corso degli anni, di mese in mese, vennero trasferiti in Italia con passaporto diplomatico. Avete salvato la vita di migliaia di persone. Non solo: le avete assistite e protette anche dopo che erano arrivate in Italia. Per questo oggi molti cileni considerano questa come la loro seconda patria. Intellettuali, attivisti, artisti. Faccio un nome su tutti: gli Inti Illimani».

Come mai l’Italia, più di altri?

«L’Italia ha una cultura sensibile ai diritti umani. La Democrazia Cristiana era collegata alla Dc cilena, entrata in clandestinità. Il Psi di Craxi era collegato con il partito socialista di Allende, il Pci e i gruppi di sinistra erano in contatto con i loro omologhi. Tutti si mossero: istituzioni e partiti, i sindacati, il mondo della cultura. Anche la Santa Sede ha esercitato da subito pressioni forti, e attivato i suoi canali diplomatici». Anche oggi, con la recente visita del Presidente Mattarella a Santiago del Cile, i rapporti già forti tra i nostri due Paesi si sono ulteriormente consolidati.

Giovanni Paolo II andò in Cile. E prima di lui Bettino Craxi, quando nel ’73 era vice segretario del PSI, guidando una delegazione dell’internazionale socialista.

«Due gesti coraggiosi che ricordiamo bene. Fecero sentire la pressione del mondo, portarono giornalisti al seguito, accesero i fari. San Giovanni Paolo venne accompagnato dal cardinal Silva Henriquez, che difendeva apertamente i dissidenti. Craxi volle andare direttamente sulla tomba di Allende sulla quale portò un mazzo di fiori. Gli mandarono contro una pattuglia di Carabinieros e uno gli puntò un mitra contro. Non indietreggiò. Furono schiaffi per il regime.

Il Cile è stato un laboratorio politico per gli esperimenti di qualcuno?

«Sì, si può affermare che è stato così. Ci sono documenti in mano agli storici che lo provano. Un esperimento sfuggito di mano dal suo laboratorio».

La democrazia può scomparire all’improvviso?

«La storia del golpe in Cile lo dimostra. Le conquiste democratiche vanno difese sempre. Anche quando non sono in molti a vederle in pericolo».

Lei è un intellettuale e un diplomatico. Come lo era Pablo Neruda, d’altronde. Cosa l’ha colpita di più, personalmente, del golpe?

«La trasformazione degli uomini. Il tradimento del generale Pinochet, che Allende considerò un suo fedelissimo fino all’ultimo. Attenzione, quella del generale Pinochet non fu una dittatura militare, ma civico-militare. Fatta da civili armati che si sovrapposero ai militari. E insisto: il fatto che al golpe seguì una repressione così dura e così efferata, con migliaia di assassini cruenti perpetrati per anni, di cileni su altri cileni, è quel che più deve farci riflettere. La violenza chiama violenza, si avvolge in una spirale di morte: quando viene meno la libertà, scompare l’umanità».

Il Cile di oggi ha votato una nuova Costituzione, è un’altra era. La memoria rimane però divisa. E così il Paese.

«Se non si chiariscono alcuni punti, se non si fa un’operazione di verità storica, non si troverà mai un accordo che pacifichi gli animi. Non si sa cosa sia successo a molte migliaia di persone ingiustamente arrestate e scomparse. Non si sa dove sono sepolti i corpi, se sono sepolti. Ma è necessario fare degli sforzi per integrare i cileni di sensibilità politica diversa».

Si è spezzato quello che Rousseau chiamava Contratto sociale…

«Esatto. Credo che per effetto dell’individualismo estremo, con l’apologia dell’egoismo che in Cile hanno iniettato i Chicago Boys, si sia perso di vista il bene comune. E si è perso il valore del pluralismo: la differenza di ciascuno è un plus per tutti. Va ritrovato il senso dell’essere una comunità solidale, che si aiuta collaborando».

Quello che è successo in Cile può succedere oggi altrove?

«Certo. Purtroppo, l’individualismo sfrenato allontana le persone dalla condivisione sociale, dal valore del bene comune e del pluralismo. E questa malattia degenerativa delle società moderne porta sempre più a considerare l’avversario come un nemico. Gli estremi si combattono più ferocemente, invece il compito vero della politica è quello di intermediare. E va ritrovato un modello di coabitazione democratica, perché altrimenti la storia si ripete».