GERUSALEMME – La guerra, il silenzio, l’ansia, le feste, l’attesa, il cauto ottimismo e una gelida freddezza. Israele vive il tempo del negoziato in un clima di vacanze. Ma sono vacanze diverse, come lo sono ormai da due anni. La guerra esplosa il 7 ottobre del 2023 ha cambiato il volto del Paese. “Siamo un Paese traumatizzato – dice Nir mentre passa i suoi giorni di festa vicino a Tel Aviv – non possiamo dimenticarlo”. La ferita è profonda. Israele non ha dimenticato nemmeno per un attimo le persone rapite e ancora trattenute nella Striscia di Gaza.

“Ogni persona, ogni singola persona è come un figlio per noi. E Hamas ha capito una cosa, che per noi israeliani un solo ostaggio vale come se ne avessero presi mille, non è una questione di numeri”, spiega David. Vicino a casa sua, una “capanna” segnala che a Gerusalemme, come nel resto dello Stato ebraico, si celebra Sukkot. Dopo Yom Kippur, che ha investito il Paese con il suo silenzio, questa festa ha un ritmo diverso, una sensazione diversa. Ma in tutto Israele, il calore delle celebrazioni contrasta con un Paese che è ancora in qualche modo bloccato. Uno stallo che coincide, ora, con quello delle trattative con Hamas. Ciò che avviene al Cairo è percepito con un misto di rassegnazione, pessimismo e con la speranza di vedere i propri ostaggi di nuovo a casa. Ma in Israele, sono in molti a non credere che questo sia il finale della partita. Il negoziato è considerato come un primo passaggio. Altri credono che alla fine salterà tutto per le richieste di Hamas. Altri ancora, invece, pregano – come accaduto in queste settimane – in piazza. Celebrazioni che si uniscono alle proteste contro il premier Benjamin Netanyahu e che servono a dimostrare che quegli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani di Gaza non sono stati dimenticati. Anche nelle feste.

Israele è compatto nel richiedere la liberazione degli ostaggi. Diverse, però, sono le anime che circondano questa richiesta. La piazza è chiaramente contraria a Netanyahu, e lo ha confermato il fluire continuo di centinaia di migliaia di persone a Tel Aviv e, in misura minore, a Gerusalemme. La residenza del primo ministro è spesso il luogo in cui si riuniscono i manifestanti. Alcuni accampamenti sono lì ormai da due anni: ironia della sorte, in Gaza street. Ma in tanti non scendono in strada non perché contrari alla domanda, ma perché non vogliono ingrossare le file dell’opposizione. Del resto, il Likud, il partito di Netanyahu, negli ultimi sondaggi rimane ancora quello che potrebbe essere più votato alle prossime elezioni (anche se potrebbe non avere alleati per avere una maggioranza solida). L’alternativa è data dall’eventuale candidatura dell’ex premier Naftali Bennett, che piace per il suo pragmatismo ma che certo non ha posizioni meno decise sulla questione palestinese. Gli altri leader dell’opposizione sono uniti nel contrastare Netanyahu, ma non appaiono capaci di unirsi e di formare una maggioranza compatta. E questo, nei sondaggi, viene percepito. Ma viene percepito anche dall’opinione pubblica. “Bibi” non piace a molti. Anzi, a moltissimi. I suoi oppositori e i critici più feroci lo considerano un ostacolo alla pace, altri un uomo che ormai è asserragliato nel proprio mondo tra l’incubo del carcere e la paranoia. “Non è lo stesso di prima, è chiaro, ormai è un altro leader impaurito e invecchiato”, ammette Gil, che ha partecipato all’ultima preghiera per gli ostaggi seppure da uomo poco religioso. “Sono i nostri ragazzi, è giusto partecipare a questo fenomeno collettivo – dice – non si tratta di religione, ma soprattutto di comunità”.

E in fondo, in queste parole c’è molto di ciò che è Israele in questa fase. La comunità araba vive da due anni un senso di forte frustrazione e anche di lontananza rispetto alla maggioranza ebraica. I laici e secolari vedono nel governo a trazione religiosa un problema, soprattutto perché sanno che i “falchi”, rappresentati dai ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, forse nemmeno entreranno nella nuova Knesset ma adesso sono indispensabili per far sopravvivere l’esecutivo. Gli ultraortodossi hanno il grande problema della leva obbligatoria, con gli haredim sul piede di guerra per paura di non essere più esentati dal richiamo nelle Israel defense forces. Le famiglie degli ostaggi invocano da tempo un accordo e la fine del conflitto e smuovono milioni di coscienze. La destra radicale è minoritaria ma sempre più rumorosa e incisiva.

In tutto questo, però, resta un Israele che combatte da due anni. Un Paese traumatizzato, con migliaia di soldati al fronte, che sente di essere isolato ma anche angosciato, in modo unitario, dal destino degli ostaggi catturati il 7 ottobre 2023.