Il dibattito scoppiato attorno al Festival di Venezia, con l’appello di Venice for Palestine per escludere Gal Gadot e Gerard Butler – accusati di sostenere l’“esercito genocida” israeliano – e con le dichiarazioni di Mark Ruffalo contro Trump e l’Europa per la crisi umanitaria a Gaza, rivela un fenomeno ormai diffuso: attori e celebrità che, più che recitare o dirigere, sembrano impegnati a cavalcare narrazioni ideologiche in cerca di visibilità. Non è un caso che gran parte di questi interventi arrivi da figure artistiche che da sempre cavalcano tutto quanto li fa passare per autorevoli. Mark Ruffalo in particolare non è nuovo a proclami dal tono messianico, posizionamenti politici che garantiscono attenzione mediatica immediata.

Ma il fenomeno non si limita a Hollywood. L’appello lanciato in Italia è stato firmato da nomi come Marco Bellocchio, Valeria Golino, Margaret Mazzantini e Laura Morante. Tutti artisti che hanno un peso. Ma si tratta di figure che, in larga misura, vivono oggi di prestigio incassato negli anni e che sembrano aver trovato nell’attivismo politico il modo più rapido per garantirsi i riflettori. Anche qui, l’impressione è che la spinta sia meno quella di una genuina urgenza morale e più quella di una necessità di mantenere un ruolo pubblico in un’epoca che impiega poco ad archiviare un personaggio pubblico.

Il problema, intendiamoci, non è che un artista esprima opinioni politiche – in democrazia è un diritto, e in certi casi persino un dovere morale. Il problema è la riduzione sistematica di questioni complesse, come il conflitto israelo-palestinese o la tragedia di Gaza, a slogan morali semplificati, utili più a generare consenso digitale che a proporre soluzioni. Parlare di “genocidio” o di “complicità nella fame” senza contestualizzare storicamente e politicamente la situazione rischia non solo di banalizzare la sofferenza reale, ma di offrire indirettamente sostegno a organizzazioni terroristiche come Hamas, che hanno fatto della strumentalizzazione umanitaria una delle loro armi più efficaci.

L’arte dovrebbe aprire spazi di riflessione critica, non uniformarsi al conformismo ideologico del momento. Oggi, invece, assistiamo a un’inversione: le star cercano nell’attivismo politico una scorciatoia alla propria irrilevanza artistica, e la denuncia diventa il nuovo palcoscenico. Il risultato è un’industria dell’indignazione che produce titoli, like e applausi facili, ma ben poca consapevolezza. In fondo, la domanda da porsi è semplice: quando l’urgenza umanitaria diventa un pretesto per rimanere sotto i riflettori, a chi giova davvero? Alle vittime del conflitto o alle carriere di chi, senza questa indignazione a orologeria, rischierebbe di scivolare definitivamente nell’oblio?

Andrea Molle

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