Il mondo nuovo
Accordi di Sharm el-Sheikh, la firma della nuova Yalta. Meloni, asse con Trump e Netanyahu
Lunedì il summit in Egitto sancirà, oltre alla pace in Medio Oriente, un nuovo equilibrio mondiale. L’Italia (e la premier) indicate da Usa e Israele come partner europeo. Blair già due volte a Roma
Confermato: Giorgia Meloni sarà tra i leader mondiali che presenzieranno, lunedì, alla firma degli accordi di Sharm el-Sheikh. L’annuncio è arrivato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha bruciato l’effetto-sorpresa: «È stata invitata la presidente del Consiglio». «L’incontro dovrebbe tenersi lunedì», ha aggiunto, «ma non sono ancora ufficiali né data né luogo».
Quello che si terrà a Sharm el-Sheikh non sarà solo un cocktail diplomatico a valle della felice conclusione del negoziato di pace in Medio Oriente. Ha già tutti i connotati del grande summit internazionale. Quasi una nuova Yalta. Perché la presenza di attori che non sono parte in causa della trattativa Israele-Hamas lascia trasparire l’intento messo a terra da Kushner e Witkoff in nome dell’amministrazione Trump. Ci sarà l’Italia, con Giorgia Meloni, negli incontri determinanti sulla ricostruzione della Striscia e non solo: nell’indicazione di quel gruppo di punta di potenze regionali che si fanno garanti della pace e dello sviluppo, delle strutture e delle infrastrutture che segneranno il futuro del quadrante.
Giorgia Meloni sarà protagonista della foto che segna la pace del 2025, una data che le prossime generazioni studieranno sui libri di scuola. Non sarà l’unica leader europea, anche se oggi è la sola confermata. Tony Blair, grande regista dell’operazione ricostruzione, vuole il coinvolgimento di più sistemi-paese europei. Francia, Uk e Germania però rimangono un passo indietro a Roma. Perché l’Italia non ha ceduto di un centimetro sul piano del riconoscimento della Palestina e ha saputo mantenere – unica in Europa, davanti perfino alla Germania di Merz – ottime relazioni con Israele. E ha saputo mantenere tutti i dossier in allineamento con la Casa Bianca di Donald Trump, che ha in Giorgia Meloni la sua interlocutrice preferita in Europa. Sul tavolo non c’è solo Gaza, non c’è la Striscia. Perché in un momento storico dove tutto si tiene insieme, è l’asse Indonesia-India-Penisola Arabica-Italia-Usa a detenere in mano il volano dei più grandi investimenti strategici.
Si chiama Imec il corridoio delle merci e dei servizi, delle risorse e delle tecnologie, del know-how e della liquidità spendibile che unisce dieci nazioni, transita per Israele e per la futura Gaza, il nuovo grande hub portuale del Sud-Mediterraneo alla cui costruzione parteciperà anche l’Italia. Progetti per decine di miliardi di dollari che includono cinque fondi sovrani e i cinque maggiori fondi privati, due miliardi e mezzo di abitanti e – se includiamo tutta l’Europa e il Nord America – i 3/4 delle risorse economiche del pianeta. Un asse fortissimo a tripla trazione: l’India da un lato, gli Stati Uniti dall’altro, l’Italia e l’Arabia Saudita (più gli Emirati Arabi Uniti) nel mezzo, a segnare le due porte ad Oriente e a Occidente. Questo sta a rappresentare la presenza della premier italiana al tavolo con Donald Trump, Benjamin Netanyahu e i principali attori arabi, lunedì.
Un riconoscimento che premia la stabilità e l’equilibrio di Palazzo Chigi e della Farnesina a guida Antonio Tajani. Diplomazia, cultura, solidità economica e capacità di mediazione sono gli elementi che hanno riportato Roma al centro della scena internazionale. A confermare il peso crescente dell’Italia anche sul piano negoziale, bastano due episodi recenti: per due volte Tony Blair, già primo ministro britannico e oggi consulente di vari governi del Medio Oriente, è venuto a Roma per riunioni riservate a Palazzo Chigi. Incontri discreti, ma che segnalano come l’Italia sia tornata a essere interlocutore di primo piano nei dossier mediorientali, un canale utile tanto per Washington quanto per Londra, Gerusalemme e Il Cairo. A sostenere questa linea è anche la credibilità delle forze armate italiane. Le missioni di peacekeeping condotte negli ultimi vent’anni — dai Balcani al Libano, dall’Iraq al Kosovo, dal Corno d’Africa al Sahel — hanno consolidato una reputazione di professionalità e affidabilità riconosciuta a livello mondiale.
Oggi l’Italia partecipa a oltre trenta missioni internazionali, con circa seimila militari impegnati sotto bandiera ONU, NATO e Unione Europea. In Libano, il comando di UNIFIL è stato più volte affidato a generali italiani. In Iraq e nel Mediterraneo, i reparti italiani sono considerati tra i più esperti nella gestione di crisi ibride e nella mediazione tra forze locali. Accanto alla forza diplomatica e militare, c’è quella culturale. L’italiano resta una delle cinque lingue più studiate al mondo, anche in Paesi non europei. Arte, letteratura, cinema, musica e design continuano a essere ambasciatori naturali del soft power italiano. Il made in Italy non è solo un marchio economico: è un linguaggio universale che unisce qualità, misura e riconoscibilità. E l’Italia guida anche il dialogo interreligioso. È a Roma che le tre grandi religioni monoteiste trovano un terreno di incontro unico, mantenendo aperti i canali con il mondo islamico e con quello ebraico, anche nei momenti più difficili.
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